L’era di Assad è finita e “Damasco è stata liberata”. A dare l’annuncio, nelle prime ore di domenica, sono stati i i ribelli islamisti siriani, riusciti in poco più di una settimana a conquistare le due più grandi città del Paese (la prima era stata Aleppo) senza incontrare resistenza significativa dalle forze lealiste del regime di Bashar al-Assad.
Il presidente deposto è arrivato nelle scorse ore a Mosca con i familiari e, a quanto scrive la TASS citando una fonte del Cremlino, la Russia ha concesso loro asilo.
In mattinata era stata la stessa Russia ad annunciare che l’alleato si era “dimesso” da presidente “a seguito dei negoziati con alcuni partecipanti al conflitto armato sul territorio della Siria (…) e dando istruzioni per effettuare pacificamente il trasferimento del potere”, si legge in un comunicato del ministero degli Esteri russo.
Il leader del principale gruppo dell’opposizione armata siriana, Abu Mohammad al-Jolani, ha definito la caduta del rais una “vittoria per l’intera nazione islamica”. “Questo nuovo trionfo, fratelli miei, segna un nuovo capitolo nella storia della regione”, ha detto il leader di Hayat Tahrir Al-Sham (HTS), in passato affiliato ad al-Qaeda e tutt’ora considerato dall’Occidente un gruppo terroristico.
In un discorso pronunciato all’interno di una moschea della capitale siriana, Jolani ha aggiunto che il Paese è stato “troppo a lungo un campo da gioco per le ambizioni iraniane, per la diffusione del settarismo e per la corruzione”, ma che ora “è stato purificato per grazia di Dio e grazie agli sforzi degli eroici mujahidin”.
“Questa è una nazione che, se le vengono tolti i diritti, continuerà a chiederli fino a quando non saranno ripristinati”, ha detto Jolani, aggiungendo che l’HTS sta provvedendo a liberare le persone imprigionate dal regime di Assad.
La fuga di Assad sancisce la fine di oltre mezzo secolo di governo della dinastia alawita su una nazione che dal 2011 fa i conti con una sanguinosa guerra civile. Il cambio di regime è arrivato con una velocità sorprendente: meno di due settimane fa, era stata Aleppo a cadere in mano ai ribelli grazie a un’offensiva lampo. Da allora, città strategiche come Homs e Hama hanno seguito lo stesso destino, seguite a ruota dalle province meridionali di Daraa, Quneitra e Suwayda. Minima la resistenza opposta dalle forze lealiste – che con l’alleato russo distratto dalla guerra in Ucraina erano diventate più vulnerabili che mai.
Video che circolano sui social mostrano scene di giubilo nella capitale, con centinaia di persone scese in strada per strappare e bruciare i ritratti di Assad (come già avevano fatto nelle prime fasi della Primavera Araba nel 2011). A Homs, i manifestanti hanno abbattuto poster del presidente sugli stessi cancelli che furono teatro delle prime proteste anti-regime.

La caduta di Assad ha implicazioni che vanno oltre i confini siriani. Oltre ad Assad, a perdere sono infatti anche Iran e Russia, che avevano sostenuto il regime con ingenti risorse militari ed economiche.
Un funzionario statunitense ha definito gli eventi di Damasco come “il crollo dell’artificio iraniano” in tutto il Medio Oriente, dato che le principali milizie appoggiate da Teheran – Hezbollah e Hamas – hanno subito pesanti sconfitte negli ultimi mesi da parte dell’esercito israeliano.
A vincere geopoliticamente è invece la Turchia di Recep Tayyip Erdogan, principale sponsor estero dei combattenti anti-Assad. Per oltre un decennio il “sultano” ha fatto arrivare armi e soldi ai ribelli islamisti al duplice scopo di favorire la deposizione di Assad (preferibilmente con un governo più vicino ad Ankara e più lontano da Teheran) e soprattutto di tenere lontani i curdi dal confine turco-siriano mediante la progettata (e sempre più verosimile) creazione di una zona-cuscinetto.
E della situazione potrebbe servirsi anche Israele, che domenica ha dichiarato di aver schierato alcune truppe nella zona cuscinetto tra Israele e la Siria nelle alture del Golan “al fine di garantire la sicurezza delle comunità delle Alture del Golan e dei cittadini di Israele”, secondo quanto dichiarato dall’esercito in un comunicato.
È la prima volta dalla firma dell’Accordo sul Disimpegno del 1974 che le forze israeliane vengono schierate nella buffer zone che delimita il confine di fatto tra i due Paesi dopo che le Alture, legalmente appartenenti alla Siria, sono state occupate dallo Stato ebraico nel 1967.
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu, incontrando alcuni gruppi di famiglie di ostaggi detenuti da Hamas nella Striscia di Gaza, ha dichiarato che la caduta di Assad “potrebbe aiutare a far avanzare un accordo per riportare a casa” gli israeliani ancora imprigionati nell’enclave palestinese.
Il Consiglio di Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti ha dichiarato che il presidente Joe Biden sta monitorando attentamente la situazione, mantenendo contatti costanti con i partner regionali per coordinare le prossime mosse.
Dal lato ribelle, l’accento è posto sulla necessità di preservare l’ordine. Il Primo Ministro siriano uscente, Mohammad Ghazi al-Jalali, ha affermato la volontà del governo di collaborare per garantire una transizione fluida e salvaguardare le infrastrutture statali.
Al-Jolani ha da subito invitato i combattenti a non interferire con le istituzioni pubbliche, vietando anche i colpi d’arma da fuoco celebrativi. Ora tutti gli occhi sono puntati proprio sul fondatore di HTS, che in passato ha militato nello Stato Islamico prima di giurare fedeltà ad Al-Qaeda – con il quale ha pubblicamente rotto i legami ribattezzando il Fronte al-Nusra in Hayat Tahrir al-Sham, o Organizzazione per la Liberazione del Levante.
Ad oggi, il gruppo è considerato di matrice terroristica dagli Stati Uniti ed è accusato di aver ucciso persone accusate di far parte di gruppi rivali o che si sarebbero macchiate di blasfemia e adulterio. La speranza statunitense è che la via di Damasco lo abbia convertito a più miti posizioni.