Domenica 8 settembre: gli Stati Uniti e le cancellerie di tutta Europa e del Medio oriente cercano di assorbire la notizia che nel giro di appena una settimana il regime di Bashar al-Assad è crollato, sotto la spinta dell’offensiva dei ribelli cominciata dalla loro base di Idlib, nel nord-ovest della Siria.
Assad era salito al potere nel 2000 dopo la morte del padre Hafez, che aveva governato il paese per 29 anni con il pugno di ferro e una struttura politica estremamente controllata. Presidenti, e non monarchi; ma l’etichetta è un dettaglio. La speranza che Assad Junior aprisse a un’era meno repressiva è durata poco. Se in alcune zone del paese si respirava un’aria più rilassata, a Damasco in particolare la maggioranza delle donne girava – nonostante il regime ufficialmente laico – col capo coperto e vestite in una sorta di uniforme grigia; i turisti – attirati dalla bellezza e dalla straordinaria ricchezza archeologica del paese – entravano solo senza visti di paesi ‘nemici’ sul passaporto, gli ingressi dei giornalisti erano severamente centellinati, le visite erano comunque obbligatoriamente affidate a guide locali che vantavano le bontà del regime.
Le proteste contro il regime nel 2011 furono soffocate nel sangue; la guerra civile che è seguita ha ucciso mezzo milione di persone e fatto sfollare altri sei milioni. Ma Assad alla lunga ha schiacciato le forze ribelli e l’opposizione, che a quel punto mescolava di tutto, inclusi gruppi di estremisti islamici affiliati ad Al Qaeda. Ci è riuscito con il consistente aiuto della Russia (tramite bombardamenti aerei continui) e dell’Iran (che ha inviato consiglieri militari in Siria), mentre Hezbollah, la milizia sostenuta dall’Iran nel vicino Libano ha schierato i suoi combattenti ben addestrati.
In realtà la guerra è sempre continuata, ma a bassa intensità: il regime ha ripreso il controllo di circa due terzi della Siria, ma un controllo incerto.
Questa volta non è andata così. La Russia è impegnata sul fronte ucraino, Hezbollah è decimato dal conflitto con Israele. Senza il loro aiuto, le truppe siriane non sono state in grado – e, in alcuni punti, a quanto pare non hanno voluto – fermare i ribelli, guidati dal gruppo militante islamista Hayat Tahrir al-Sham (HTS).
HTS ha conquistato Aleppo, la seconda città del Paese, la settimana scorsa. Poi Hama e, appena due giorni dopo, il centro nevralgico di Homs, isolando Damasco. In poche ore sono entrati nella capitale, sede del potere di Assad.
Il crollo del regime degli Assad dopo 50 anni cambierà tutto l’equilibrio della regione.
TURCHIA: Molti pensano che l’offensiva non sarebbe potuta avvenire senza la benedizione della Turchia. Da tempo, il presidente Recep Tayyip Erdogan faceva pressione su Assad affinché si impegnasse in negoziati per trovare una soluzione diplomatica al conflitto, che potesse consentire il ritorno dei rifugiati siriani a casa: ce ne sono ancora almeno ben tre milioni nei campi profughi della Turchia, e sono una spina nel fianco e una costante fonti di attrito con la popolazione locale. Assad però non ha acconsentito ai negoziati.
La Turchia sostiene alcuni dei ribelli in Siria, ma ha negato di appoggiare l’HTS.
IRAN: è un altro drammatico colpo per il potere dell’Iran, che perde il paese ponte con Hezbollah, fondamentale per il trasferimento di armi e munizioni al gruppo già indebolito. L’Iran ha anche visto gli Houthi nello Yemen essere bersaglio di attacchi aerei. Tutte queste fazioni, più le milizie in Iraq e Hamas a Gaza, formano quello che Teheran descrive come l’Asse della Resistenza, che ora è stato gravemente danneggiato.
ISRAELE: Ovviamente il crollo di Assad è celebrato in Israele, dove l’Iran è visto come una minaccia esistenziale. Ma non è senza complicazioni. Il futuro è incerto: HTS ha radici in Al-Qaeda e un passato violento. Negli ultimi anni ha tentato di ribattezzarsi come forza nazionalista e i messaggi recenti hanno un tono diplomatico e conciliante, ma c’è grande preoccupazione per quello che potrà fare dopo aver rovesciato il regime.
La situazione precedente – con il regime di Assad indebolito – per Israele aveva anche dei vantaggi: poteva agevolmente bombardare i convogli che viaggiavano dall’Iran agli Hezbollah in Libano senza interferenze.