I confini del Medio Oriente come siamo abituati a vederli furono disegnati a tavolino da due europei, l’inglese Mark Sykes e il francese Georges Picot. Quelli che potrebbero formare la nuova mappa della regione sembrano destinati a essere tracciati dai missili, dai carri armati e da strumenti apparentemente meno militari, ma ugualmente micidiali, come i cercapersone che hanno fatto strage in Libano, tutti gestiti, diciamo, dal premier israeliano Benjamin Netanyahu, con l’aiuto indispensabile del suo ministro della Difesa Gallant, di un apparato militare avanzatissimo e della complicità di una parte della comunità internazionale, in primo piano gli Stati Uniti.
Raccontando il tratto di penna che inventò il Medio Oriente per il libro Sconfinate: Terre di confine e storie di frontiera (ed. Ogzero), spiegai un paio di anni fa che “L’accordo dei ladri coloniali”, come fu definito da Lenin, fu rivelato al mondo con un articolo sul giornale russo Izvestija pubblicato il 24 novembre 1917. I bolscevichi avevano trovato il documento negli archivi dello zar Nicola II subito dopo la rivoluzione e volevano che tutti sapessero quali erano i piani di spartizione dell’Impero Ottomano decisi dalle grandi potenze, o meglio da Gran Bretagna e Francia con il consenso interessato della Russia.
Nel 1915, nel corso di una riunione del Gabinetto di guerra a Londra, il diplomatico Mark Sykes aveva pronunciato una frase divenuta storica: “Tirare una linea diritta dalla seconda K di Akko alla seconda K di Kirkuk”. Ossia da San Giovanni d’Acri a nord di Haifa, oggi Israele, al cuore dell’Iraq, per definire le sfere d’influenza, ossia le colonie europee bottino della distruzione del grande impero ottomano. Già oggi gli stati-nazione hanno confini diversi da quelli di allora. L’Iraq e la Siria sono entità frammentate da divisioni interne, molte delle quali volute dalle potenze occidentali, Stati Uniti in primo piano. All’indomani del feroce e criminale attacco dei miliziani di Hamas contro gli insediamenti israeliani lungo la frontiera di Gaza (ormai quasi un anno fa), il ministro della Difesa Gallant aveva suggerito di sferrare un attacco preventivo contro il Libano. Altri esponenti ancora più radicali del suo governo volevano far scomparire il Libano e farne un pezzo di Israele.
L’idea della Grande Israele non è nuova. Era scritta nella piattaforma del Likud, il partito di centro-destra guidato per anni dai premier Begin e Shamir. È da sempre nella testa di Netanyahu, per il quale i confini dello “stato ebraico” dovrebbero arrivare al Mediterraneo e al fiume Giordano. Al leader palestinese Yasser Arafat piaceva tanto lo slogan che l’aveva fatta sua per rinunciare alla rivendicazione e tentare un compromesso quando strinse la mano a Rabin e Peres sul prato della Casa Bianca accettando di fare la pace con Israele.
Secondo Peace Now, un’organizzazione che monitora la confisca di terre in Cisgiordania, quest’anno Israele ha sequestrato 23,7 km² (9,15 miglia quadrate) di terre palestinesi approfittando dell’attenzione della comunità internazionale sulla guerra a Gaza. È il picco nelle confische di terre da parte di Israele negli ultimi tre decenni e sembra puntare all’annessione della Cisgiordania e possibilmente a costringere il maggior numero di palestinesi alla fuga oltre confine. La Giordania è lo stato palestinese, sostiene Netanyahu, ripetendo le stesse frasi che Shimon Peres amava dire, se non in pubblico, in privato, quando ipotizzava una confederazione tra Israele, Giordania e Palestina.