In Argentina, nella canicola del Natale australe, il jingle bells come rumore di fondo è stato spazzato via dal cacerolazo. Il concerto di percussione delle pentole che 22 anni fa aveva accompagnato la fuga in elicottero dalla Casa Rosada di Fernando de la Rua per la catastrofe del corralito. E che oggi contesta in nome della democrazia in pericolo le prime misure choc del nuovo presidente, l’anarcocapitalista Javier Milei soprannominato “El loco”.
Dopo la manifestazione in Plaza de Mayo del 21 dicembre (subito dopo l’annuncio del decreto di urgenza per privatizzare tutto il possibile e rendere quanto più flessibile il mercato del lavoro), seguita da un paio di notti di protesta in tutte le principali città, le maggiori organizzazioni sindacali spalleggiate dai partiti di sinistra e da una miriade di associazioni civiche sono oggi ridiscese con maggior partecipazione di nuovo in piazza. Urlando la rabbia di chi si sente depredato dall’ondata dei provvedimenti di estrema destra. Con slogan che stanno facendo salire la tensione sociale ai livelli di guardia. “La patria non si vende”, “Milei spazzatura, tu sei la dittatura”, “Piquete e cacerola, la lotta è una sola”, “No al ritorno alla monarchia assoluta e al ritorno al Medio Evo”. Con strade bloccate nonostante le dure disposizioni del nuovo ministro della Sicurezza Patricia Bullrich che con il nuovo protocollo sull’ordine pubblico prevedono l’arresto immediato (senza autorizzazione del magistrato) e la perdita immediata degli eventuali sussidi di Stato per chi ostacola la mobilità. E scontri fra polizia e manifestanti, con lanci di bottiglie, colluttazioni e qualche sparo, che hanno prodotto sette arresti e un numero imprecisato di feriti.
Era prevedibile che nell’acrobatico percorso che dovrebbe proiettare l’Argentina verso il paradiso, passando però prima per l’inferno, la metà della popolazione che giace sotto la soglia di povertà si rifiutasse di stringere ancor più la cinta. Un sacrificio ulteriore imposto dall’aumento incontrollabile dei prezzi che per molti argentini rendono inaccessibili perfino i beni e i servizi di prima necessità (50 per cento in su per il pane, triplicate le tariffe di acqua, luce e gas). L’ondata di protesta era stata messa in conto dallo stesso Milei che non ha però alcuna intenzione di rallentare il ritmo delle privatizzazioni selvagge e delle limitazioni dei diritti acquisiti. “Sono tutte misure a favore del popolo”, ripete come un mantra. “E chi non lo capisce, e rimpiange lo Stato assistenziale, è solo prigioniero della sindrome di Stoccolma”.

L’opinione pubblica, in realtà, è spaccata a metà. E l’atteggiamento di sfida di Milei, ai limiti dell’arroganza (aveva già tolto per ragioni di risparmio la scorta al suo predecessore Albero Fernandez), non fa che esasperare le divisioni. Sulle due sponde, che si guardano irriducibilmente in cagnesco, crollano amicizie granitiche come in Italia ai tempi del berlusconismo al potere. A parte i ceti più disagiati che si arrabattano per sfuggire agli stenti nelle sterminate villas miserias (le favelas argentine) anche il ceto medio sta subendo pesanti penalizzazioni. Al punto che in pochi giorni ha cominciato ad assottigliarsi l’ampio margine di consenso con cui nel secondo turno Milei aveva trionfato. Dal 55,65 (contro il 43,55 del rivale Sergio Massa) è scivolato al 53.
Basta scorrere l’elenco delle riforme radicali (oltre 360) introdotte nel decreto di emergenza pubblica che dovrebbe rimanere in vigore fino al 31 dicembre 2025. Svalutazione del 50 per cento del peso. Cancellazione della maggior parte dei sussidi. Incremento delle tasse. Privatizzazioni a raffica delle aziende di Stato previa trasformazione in società per azioni. Limiti al diritto di sciopero, in particolare nei settori dei trasporti e della pubblica istruzione considerati attività essenziali. Deregolamentazione dell’estrazione mineraria, dell’Internet via satellite, della medicina privata, degli appalti, dei contratti di affitto con l’introduzione del baratto (chi non riesce a pagare la pigione può bizzarramente risarcire il locatore con criptovalute, beni personali e perfino chili di carne).
Uno tsunami. Ma la norma che ha indignato di più l’esercito degli antimileisti è il licenziamento in tronco di 7 mila lavoratori del settore pubblico che avevano un contratto a termine in scadenza. Una misura di macelleria sociale considerato ai limiti della ferocia. A cui si sta pensando di reagire con uno sciopero generale del pubblico impiego.
La posta in palio trascende il conflitto fra le visioni macroeconomiche per far uscire dalle secche della miseria un Paese potenzialmente ricchissimo (assistenzialismo peronista che ha fatto schizzare l’inflazione a oltre il 140 per cento contro turboliberismo che affida la rinascita solo alla religione del libero mercato). Prima ancora che la salvezza finanziaria è in discussione la tenuta della democrazia. E proprio per frenare l’aggressività dell’avanzata mileista le opposizioni non hanno esitato a ricorrere alla magistratura. E’ stato presentato un ricorso in tribunale contro il decreto di emergenza per “abuso di potere”. La maggioranza dei giuristi giudica anticostituzionale l’impianto della riforma. Ma è immaginabile, vista l’irremovibilità del “loco”, che la controversia si trascini fino alla Corte Suprema.
Il vero ostacolo per Milei rimane il Congresso (ancora in mano ai peronisti), dove ha pochi rappresentanti e anche con l’aiuto dei conservatori della Bullrich è in minoranza. Per mettere i rappresentanti del popolo con le spalle al muro il presidente ha introdotto le sue misure rivoluzionarie con un decreto d’urgenza che, per non decadere, ha bisogno dell’approvazione almeno di una delle due Camere. I moderati di entrambi gli schieramenti hanno cercato invano di venirgli incontro proponendogli la presentazione di una “legge specchio” che avrebbe previsto la possibilità di emendamenti e tempi più lunghi per cercare compromessi. Niente da fare. Milei continua a impugnare la motosega. Nella stessa giornata del malcontento ha inviato al Congresso una legge omnibus di 664 articoli per una profonda riforma dello Stato. Facendo trapelare che se incontrerà ostacoli ricorrerà al referendum. Buttando così altra benzina sul fuoco.
Si illude però se confida che in un Paese emotivamente tanto infiammabile la sua crociata dell’iperliberismo possa avanzare con lo Stato di polizia e le restrizioni delle libertà personali.