Qualcosa potrebbe finalmente muoversi nei rapporti tra Pechino e Washington, disastrati dalla presidenza Trump. I panda potrebbero essere all’origine del necessario cambio di marcia. Si ricorderà come, nello storico incontro del 1972 tra i presidenti Nixon e Mao Zedong, i cinesi avessero promesso di inviare una coppia di panda a uno zoo statunitense (Nixon contraccambiò con due buoi muschiati). All’epoca si scrisse che a condurre la Cina popolare alle Nazioni Unite fosserostate due diplomazie speciali: ping pong e panda. Qualcosa del genere potrebbe accadere ai nostri giorni.
Si ha notizia che la Cina non intenda rinnovare l’accordo sul soggiorno statunitense di Mei Xiang, Tian Tian e il cucciolo Xiao Qi Ji, i tre panda giganti che quindi sloggerebbero dal National Zoo di Washington, D.C., ad inizio dicembre, lasciando negli Usa soltanto il panda dello zoo di Atlanta (il cui contratto di soggiorno scade il prossimo anno). Il mancato rinnovo degli accordi di collaborazione e ricerca sottoscritti da Pechino per i 65 panda tuttora presenti in 19 paesi, sarebbe effetto della “diplomazia punitiva” che ha colpito negli ultimi anni due altri zoo americani e in questi giorni zoo in Scozia e Australia.
La “diplomazia punitiva” tra Cina e Stati Uniti, riguardante ovviamente ben altro che i panda, potrebbe essere interrotta o almeno rivista, laddove Xi Jinping partecipasse al vertice Apec di novembre (11-17) a San Francisco, avendo un succoso bilaterale con Joe Biden.
Lo slogan del vertice – “Creating a Resilient and Sustainable Future for All” – suona di buon auspicio ma anche alieno dai terribili e preoccupanti problemi del presente. Ci si augura che gli sherpa al lavoro abbiano ben altro senso della realtà e stiano preparando un’agenda tesa a far condividere ai leader qualche soluzione ai problemi globali che continuano ad accumularsi.
Si spera che a Washington prevalga chi esprime apprezzamento per il fatto che la competizione cinese non si sia sinora spinta oltre la sfera economica e commerciale, mai tramutandosi in offensiva né politica né, soprattutto, militare, al contrario di quanto si è sperimentato con la Russia, incapace di competizione economica e commerciale, e attivamente aggressiva sul piano politico e
strategico.
La posizione cinese, nel mezzo del guado verso l’abbraccio della folle sfida lanciata da Putin, può essere tramutata in una sorta di neutralità ragionevole che indebolisca la posizione internazionale di Mosca. La nuova posizione cinese sarebbe utilissima alla costruzione del percorso virtuoso verso un nuovo assetto di equilibrio del sistema internazionale, capace di assumere decisioni utili all’equa stabilizzazione delle troppe crisi che non trovano soluzione.
Il mondo pericoloso nel quale ci siamo cacciati può trovare nella reciproca apertura di credito politico tra Cina e Usa, attraverso un dialogo tra diversi, competitori ma non nemici, qualche soluzione che altrimenti non si vede proprio da dove possa arrivare.
Si guardi alle due più grandi crisi in agenda, aperte ambedue da attacchi a freddo a stati sovrani: quello della Russia all’Ucraina, quello di Hamas ad Israele. Nella prima la Cina, benché non perda occasione per confermare la propria amicizia con la Russia, evita di sottoscrivere alleanze formali, si esprime contro le aggressioni a stati sovrani e l’uso della guerra per la soluzione di conflitti fra gli stati, sceglie l’astensione alle Nazioni Unite nel febbraio 2022, alza la voce contro le minacce di uso dell’arma nucleare.
Nella seconda, quando si riunisce il Consiglio di Sicurezza per esaminare l’aggressione ad Israele, la Russia non consente il voto, la Cina si schiera per una presa di posizione. Il rappresentante permanente Zhang Jun che, in linea con la tradizione diplomatica di Pechino ha condannato “ogni attacco contro i civili”, afferma: “è anormale che il Consiglio di sicurezza non dica nulla”.
Si tratta di una diversità politica tra Cina e Russia che assume ulteriore valore se si considera che un sesto circa della popolazione israeliana è fatta di emigrati russi dalle origini più o meno ebraiche, con forti legami economici e culturali con il paese di nascita.
Apec si presenta come il luogo opportuno per un breakthrough come quello che qui si ipotizza. Proposto dal primo ministro australiano Bob Hawke nel gennaio 1989, l’Asia-Pacific Economic Cooperation non ha mai preteso di costituirsi in organizzazione internazionale rigida, restando un forum di incontri, con una presidenza annuale a turno e un segretariato non troppo strutturato che, collocato dal 1993 a Singapore, procura con poche decine di personale un minimo di coordinamento.
A deporre per la sua estrema utilità strategica, in questa fase, stanno vari fattori. L’informalità dell’incontro. Il fatto che si tenga negli Stati Uniti. Gli interessi comuni di un’agenda che rivendica uno sforzo di “Resilience and Sustainability for All”. La presenza di un migliaio di CEO e rappresentanze imprenditoriali a vario titolo che investono sulla ripresa del dialogo tra Pechino e Washington. I temi sul tavolo Apec – si pensi a ciò che sta dentro i termini resilience (risposta ai disastri, rafforzamento delle catene di approvvigionamento, preparazione alle sfide future) e inclusion (operare per le comunità sottorappresentate e per le categorie economiche e sociali meno favorite) – non troveranno risposta senza il rilancio della diplomazia multilaterale, che oggi realisticamente può trovare occasione di esprimersi soltanto se alla base vi sarà la condivisione cinese e statunitense di non conflittualità reciproca.
Da ciò che dichiara in pubblico, del breakthrough sarebbe sicuramente felice l’ambasciatore a Washington Xie Feng, arrivato a maggio, neppure un trimestre dopo l’abbattimento del pallone spia cinese. Da allora pedala in salita. Deve avere un’agenda pienotta, con le tante situazioni da risolvere: sanzioni contro cittadini e autorità cinesi, restrizioni alle importazioni di semiconduttori, lotta al flusso a gogo di fentanyl, controllo delle manipolazioni di TikTok.
È prioritario che i cinesi non s’ammalino della sindrome che ammorba la politica estera russa dalla presa bolscevica: quella dell’accerchiamento occidentale. Nel caso dei rapporti con gli Usa la
sindrome sarebbe persino peggiore di quella che colpisce la politica russa, essendo gli Stati Uniti una potenza anche orientale.