Una parola nuova è entrata nei racconti del conflitto israelo-palestinese. Per la prima volta, molti israeliani hanno commentato i tragici eventi delle settimane scorse nei territori occupati della Cisgiordania servendosi di un termine preso dal passato di molti di loro e di molti ebrei della diaspora, specialmente nord e sudamericani.
Pogrom è una derivazione dal russo Gomit, devastare, saccheggiare. Per chi è troppo giovane la parola potrebbe non avere significato. Si riferisce alle sanguinose sollevazioni popolari contro le comunità ebraiche in Russia a cavallo fra ‘800 e ‘900. Spesso viene usato per definire un’azione persecutoria violenta contro una minoranza etnica o religiosa.
Io l’ho imparata, quella parola, da giovane. Fu mia madre a parlarmene mentre crescevo nel Bronx (mio padre era italiano di famiglia cattolica) ma soltanto pochi anni fa, prima di morire, ebbe la forza di raccontarmi come anche gli Esbinsky furono vittime degli attacchi antisemiti dei cosacchi in Bielorussia, non distante da Cernobyl, non distante dal confine ucraino. Vide rotolare la testa di sua zia stroncata dalla sciabolata un uomo in divisa e a cavallo. Vide morire altri della sua non piccola comunità. Vide uccidere anche uno di loro da suo fratello, mio zio Shimon. Un colpo di pistola.

La settimana scorsa molti ebrei americani che, purtroppo, conoscono bene la parola Pogrom, furono tra coloro che accolsero l’appello di altri ebrei, cittadini israeliani ma residenti di New York, e che chiedevano solidarietà. Ne ha parlato il quotidiano israeliano Haaretz. “Non possiamo stare a casa mentre le nostre famiglie e i nostri amici stanno combattendo per tutti noi in prima linea”, si leggeva nel messaggio citato dal quotidiano di sinistra e che si riferiva alle azioni e alle manifestazioni settimanali in corso da parte delle centinaia di migliaia di manifestanti contro la coalizione di governo del primo ministro Benjamin Netanyahu.
Non si parlava, però, di pogrom. La protesta che va avanti ormai dallo scorso inverno non ha nemmeno preso in considerazione le azioni violente dei coloni nei territori palestinesi occupati della Cisgiordania. A loro interessava, interessa, lo sforzo del primo ministro di sovvertire le regole della giustizia israeliana e a evitare una condanna per reati che comprendono corruzione e malversazione. Il termine “pogrom”, però, è stato usato da Haaretz e da altre fonti israeliane in riferimento alle aggressioni ai villaggi palestinesi da parte dei coloni israeliani. Già a febbraio era accaduto qualcosa di simile e un quotidiano Usa scrisse: “Il raid è stato descritto in alcuni ambienti israeliani e palestinesi come un pogrom. “Ha provocato la morte di almeno un civile palestinese“.
Dall’inizio 2023 forze israeliane hanno ucciso almeno 160 palestinese compresi 26 bambini. Il 2 luglio il Washington Post titolava “Le forze israeliane lanciano una maxi-operazione in una città della Cisgiordania, uccidendo almeno 8 palestinesi”. Pochi giorni dopo spiegava, preoccupato: “Laddove i residenti del campo di Jenin ricostruiscono dopo una due-giorni di raid che ha provocato 12 morti palestinesi, emerge una nuova risposta israeliana alla militanza cisgiordana”.

Quest’anno, sono stati uccisi 21 israeliani, civili e uomini in divisa delle forze di occupazione.
Quell’idea di pace rimasta in sospesa da quando i leaders israeliani Shimon Peres e Itzhak Rabin strinsero la mano al leader palestinese Yasser Arafat sul prato della Casa Bianca davanti al presidente americano Bill Clinton è ogni giorno un’ipotesi meno realizzabile. All’occupazione militare della Cisgiordania e di una parte di Gerusalemme si è aggiunto il numero degli insediamenti israeliani e quello dei coloni ebraici. E per ora, quel prato e l’edificio bianco che vi si affaccia sono off-limits per il leader israeliano rendendo ancora più difficile, non una soluzione del “problema palestinese” ma quanto meno un modo per contenere il dissenso arabo e rinviare ancora la non-soluzione come si è fatto per anni.
Lo scontro in atto tra il presidente Biden e Netanyahu non ha precedenti nella storia dei rapporti tra i due paesi. A un anno dalle elezioni presidenziale, con una guerra – quell’Russia-Ucraina – in corso, con le tensioni Usa-Cina e la presa di distanza dell’Arabia saudita nei confronti degli Usa – per nominare soltanto alcune delle esplosive tensioni internazionali di cui si deve occupare-preoccupare Biden – Netanyahu non e alto nell’agenda americana. Proprio domenica il presidente Usa ha criticato i membri della coalizione di estrema destra guidato da Netanyahu per aver esacerbato le tensioni tra Israele e i palestinesi, definendolo “uno dei governi più estremi” che ha visto nei suoi decenni in politica.

“Bibi, penso, sta cercando di capire come possiamo affrontare i suoi problemi esistenti in termini di sua coalizione”, ha detto Biden a Fareed Zakaria della CNN, aggiungendo: “In Cisgiordania, non è solo Israele il problema, ma fanno parte del problema, e in particolare quegli individui nel gabinetto che dicono: “Possiamo sistemarci ovunque vogliamo. [I palestinesi] non hanno il diritto di essere qui, ecc.’”
“What Can Joe Biden Do About Benjamin Netanyahu? – Cosa può fare Joe Biden a proposito di Benjamin Netanyahu? – si è chiesto l’altro giorno Bernard Avishai, professore di economia politica e autore di due libri importanti su Israele: “The Tragedy of Zionism,” e “The Hebrew Republic,” su The New Yorker, mentre il Washington Post sembra portare avanti una campagna quasi quotidiana contro la svolta autoritaria, anti-democratica del governo Netanyahu.
Il premier ha accettato le dimissioni del capo della polizia criticato dal premier e da altri esponenti – ancora più a destra – della sua coalizione perché non faceva abbastanza per schiacciare le dimostrazioni che da mesi sconvolgono la vita degli ebrei israeliani e chiedono la fine del progetto del premier di modificare la legge e consentire ai ministri di licenziare i giudici dell’Alta corte e salvare Netanyahu dalle accuse che pendono nei suoi confronti.

Orly Noy è un’attivista politica e giornalista Mizrahi, cioè ebrea di origine mediorientale, nata in Iran. È redattrice di Local Call, presidente del consiglio di amministrazione di B’Tselem, il Centro di informazione israeliano per i diritti umani nei territori occupati. È scettica. Teme che la situazione possa aggravarsi. “La vista dei rifugiati palestinesi che fuggono dalle loro case al buio, con le mani alzate sopra la testa, non evoca solo il ricordo della Nakba. Ricorda che l’espropriazione dei palestinesi non è mai finita: queste stesse famiglie – parla di quelle del campo profughi di Jenin – hanno perso le loro case nel 1948 o sono i discendenti di coloro che le hanno perse. I palestinesi sanno bene di trovarsi di fronte a uno Stato bellicoso e disinibito che, con la scusa della sicurezza e del vittimismo, non risparmierà alcuno sforzo: espropri, uccisioni, pulizia etnica. E forse il peggio deve ancora venire.”
“Si sono sentite deboli critiche da parte di alcuni esponenti della sinistra sionista, che hanno accusato premier di aver lanciato l’operazione militare per distogliere l’attenzione dalla protesta pubblica contro di lui e per metterla a tacere. Tuttavia, non dobbiamo ridurre l’invasione di Jenin a un calcolo politico di Netanyahu contro il movimento di protesta. I frequenti e mortali attacchi a Jenin, così come le aggressioni di routine a Gaza, la pulizia etnica in corso nei territori occupati, l’incoraggiamento dei pogrom dei coloni e la repressione dei palestinesi su entrambi i lati della Linea Verde – tutto fa parte di una più ampia politica israeliana formulata con agghiacciante precisione in quello che il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich chiama il suo Piano Decisivo, che cerca di mettere in ginocchio i palestinesi e di espellere all’ingrosso coloro che rifiutano di piegare la testa.