Da colpo di Stato a colpo di teatro. E tutto in meno di 24 ore.
In un tiepido fine-settimana estivo, Evgenij Prigozhin ha davvero tentato l’impossibile: rovesciare uno dei regimi più solidi e longevi al mondo con la sua compagnia Wagner, un’armata di 25.000 tra mercenari ed ex galeotti.
Solidità del regime che non è retorica, né esclusivamente fondata sulla forza repressiva. Malgrado 146 milioni di cittadini russi (per non parlare di 43 milioni di ucraini) avvertano infatti nelle tasche e sulla pelle i costi della guerra, gran parte di loro continua ad approvare quasi fideisticamente la direzione dello “zar” Vladimir Putin. L’economia russa, poi, ha certo risentito delle sanzioni ma non nell’intensità auspicata da molte cancellerie occidentali – cosicché il PIL russo si avvia addirittura a crescere dello 0,7% secondo le ultime stime del Fondo Monetario Internazionale, complici le esportazioni-record di greggio verso India e Cina.
Con buona pace di chi continua a diagnosticarne un imminente crollo politico e clinico, Putin sembra insomma destinato a rimanere al suo posto ancora per un bel po’.

Rimane perciò un mistero cosa abbia motivato l’ammutinamento di Prigozhin, che pure conosce a menadito il potere dello zar pietroburghese – dato che per lungo tempo ha composto anche lui quel famigerato cerchio magico putiniano che gli addetti ai lavori chiamano dei siloviki (letteralmente “uomini di forza”).
Scontati peraltro i paragoni tra la sedizione della Wagner e la Rivoluzione d’ottobre – così come le analogie tra i due ‘imperi’, zarista e putiniano, ritenuti entrambi a fine corso e alle prese con due conflitti rovinosi. Almeno due, però, le differenze fondamentali: i bolscevichi erano quasi 300.000. E, soprattutto, erano partiti dalla capitale Pietrogrado, della quale erano riusciti ad occupare i palazzi del potere per dichiarare così scacco matto allo zar. I colpi di Stato partono dal centro e si diffondono in periferia – quasi mai il contrario.
Nel caso di Prigozhin, l’impresa si preannunciava molto più impervia: rispetto ai 300.000 di Lenin i lanzichenecchi di Prigozhin erano meno di un decimo. E il moto insurrezionale era partito da Rostov sul Don, che dalla capitale Mosca dista quasi 1.000 km (per Kyiv, invece, ne bastano 760 – e non a caso la città ospita il quartier generale del distretto militare meridionale, che coordina le operazioni nel confinante Donbass). Polizia, guardia nazionale, FSB e forze armate hanno insomma avuto tutto il tempo per studiare la controffensiva e blindare i luoghi-chiave della capitale.
Magari è stata proprio la sopraggiunta consapevolezza di un macro-errore strategico a far tornare Prigozhin sui suoi passi, dopo essersi reso conto che la fiamma accesa dalla Wagner non aveva innescato l’atteso incendio di risentimento anti-putiniano. Al contrario, lo zar non ha subito pressoché alcuna defezione dai suoi ranghi politici e militari.
E, oltretutto, milioni di russi hanno assistito passivamente alla lotta intestina in corso tra i due ex amici. Come a dire: se l’alternativa a Putin è Prigozhin (certamente non avvertito come un liberatore à la Che Guevara), meglio lo status quo.

Con un accordo mediato in extremis dal presidente bielorusso Aleksandr Lukashenko, Prigozhin ha quindi salvato il salvabile, mentre Putin ha evitato – ma solo in parte – l’umiliazione di dover spargere sangue su due fronti contemporaneamente.
Alcuni termini dell’accordo sono ormai di pubblico dominio: Prigozhin graziato dalle accuse di sedizione ma di fatto esiliato nella vicina Bielorussia; nessuna ritorsione contro i suoi combattenti che hanno partecipato all’ammutinamento, e, per chi ha disobbedito agli ordini di marciare verso Mosca, anche una proposta di arruolamento nell’esercito regolare.
Rimane da capire, tuttavia, cosa sarà rispettivamente di Prigozhin e della Wagner. Quello compiuto le scorse ore è stato nonostante tutto il più grave guanto di sfida all’autorità di Putin degli ultimi 24 anni, ossia da quando l’ex capo del KGB è stato promosso al Cremlino. Se, come sembra, Prigozhin sarà davvero mandato in confino a Minsk, molti si chiedono quanto controllo il leader bielorusso sarà in grado di esercitare su di lui e quale pericolo le forze di Wagner costituirebbero per il baffuto alleato-vassallo dello zar.
E poi, cosa sarà della stessa Wagner e dei Wagneriani? Torneranno a combattere in Ucraina (oltreché in Africa e Siria) con le divise dell’esercito russo, come se nulla fosse stato? Oppure seguiranno il loro signore della guerra in Bielorussia?

Tante le domande, pochissime le risposte certe. Così come appare incerto quali possano essere le ripercussioni del tentato golpe/guerra civile/ammutinamento sullo scenario interno russo e sulla guerra in Ucraina.
A trarne vantaggio potrebbe essere nei prossimi giorni proprio la controffensiva di Kyiv, favorita dalla destabilizzazione del morale russo e dall’incertezza sul futuro del ministro della Difesa Sergej Shojgu e quello del capo di Stato maggiore Valerij Gerasimov – che fino ad ora hanno diretto la cabina di regia bellica di Mosca ma da settimane divenuti bersagli delle filippiche di Prigozhin.
Eppure i contraccolpi del ‘golpino’ di sabato sembrano essere soprattutto simbolici. Uno dei siloviki si è macchiato di lesa maestà, creando un pericoloso precedente.