L’ottuagenario dallo sguardo sperduto ha trascorso tutta la notte all’aperto. Accovacciato su una stuoia stesa sotto la tettoia che a Khartoum protegge dalle intemperie l’ingresso dell’ospedale cardiochirurgico Salam (Pace). Lo ha raggiunto a piedi con una marcia di sette giorni nella savana. Aveva problemi di cuore e il cerusico del suo villaggio gli ha consigliato di bussare alla porta dei santoni italiani che curano gratis chiunque ne abbia bisogno. All’alba, circondato da un’altra decina di cardiopatici, il vegliardo è in attesa che si aprano gli uffici per l’accettazione, la prima visita, la sistemazione nella foresteria. Sa che non sarà respinto. Emergency, in Sudan come in Afghanistan, in Angola come in Iraq, non abbandona mai nessuno. Secondo la filosofia di Gino Strada, il fondatore scomparso nel 2021, incentrata sul diritto universale alla salute.
L’ospedale di Khartoum, un faro non solo per il Sudan ma anche per le nazioni circostanti (un’area vastissima dove si addensano 330 milioni di persone), è uno dei pochi rimasti aperto in un Paese precipitato agli inferi (manca perfino il cibo) da una guerra civile feroce, scatenata da fazioni militari golpiste, che ha costretto alla fuga la comunità occidentale. Come avveniva a Kabul durante gli assalti dei talebani anche nella capitale sudanese i generali garantiscono l’inviolabilità di una struttura d’eccellenza che è una polizza di assicurazione indistintamente per tutti. Al di là degli odi inconciliabili e dei massacri inflitti dalle orge di potere. “Attualmente abbiamo in cura un’ottantina di pazienti”, è la semplice ed esauriente spiegazione dei responsabili, “e non possiamo abbandonarli, neanche in un contesto tanto drammatico”. Una bussola etica che non ammette deroghe al giuramento di Ippocrate.
Ma che purtroppo non si estende a stemperare i furori dei responsabili di un conflitto deflagrato fra i vertici di organizzazioni militari fino a ieri alleate e oggi mortalmente nemiche. Senza coinvolgimento della società civile. E, soprattutto, manovrate all’esterno da potenze straniere.
Che trovano terreno fertile nella tradizione di instabilità di un Paese che ha già conosciuto 16 colpi di Stato.

I duellanti con le stellette sono il generale Abdel Fattah al-Burhan (62 anni), presidente ufficiale del Sudan (mai eletto), e il generale Mohammed Dagalo (49 anni), detto Hemedti, capo delle Forze di supporto rapido (Rsf), una formazione paramilitare con 100 mila miliziani che dovrebbe fungere da supporto all’esercito regolare. La cupola militare si era data l’obiettivo di gestire la transizione dopo la caduta (2019) della dittatura innescata dalle proteste per il costo del pane. Omar al-Bashir, il presidente detronizzato, aveva governato per 30 anni con il pugno di ferro e nel 2009 era stato incriminato dalla Corte Penale Internazionale (primo capo di Stato) per il genocidio del Darfur (mandato di cattura mai eseguito) con l’agghiacciante bilancio di 400 mila morti e due milioni di profughi.
Dopo l’estromissione di Bashir i due generali cedettero per un breve periodo il potere ai civili per riprenderselo nel 2021 e rinviare a tempi indefiniti il passaggio alla piena democrazia. Il pomo della discordia è stato il progetto di integrazione nell’esercito regolare della Rsf che al-Burhan voleva realizzare in tempi brevi e Hemeti, per paura di indebolire la sua sfera di influenza, aveva intenzione di rimandare di dieci anni. In concreto Hemeti, anche quando era formalmente schierato al fianco del presidente, coltivava il progetto di fargli le scarpe.
E’ uno scontro di ambizioni cresciute a dismisura nelle irresistibili ascese dei due protagonisti.
Il generale al-Buhran è un figlio della borghesia del Nord che come militare di carriera si è formato in Egitto e Giordania. E in seguito è assurto a capo dei pretoriani di al-Bashir che diffidava dei settori meno malleabili dell’esercito. Era affidato a lui il compito di coordinare in Darfur le repressioni contro le etnie locali. Oggi, influenzato dal vicino Egitto, coltiva l’aspirazione di diventare l’Al Sisi del Sudan.
Ancor più sanguinario il curriculum di Hemedti, un ex cammelliere incolto (ha solo la terza elementare), molto attivo ai confini con la Libia e il Chad. Nel 2003 mette insieme il primo nucleo della sua forza paramilitare. Quando le tribù locali lanciano in Darfur la ribellione contro il governo si schiera in un primo tempo dalla loro parte. Poi, con un repentino voltafaccia, passa al fianco degli arabi appoggiati da Karthoum e diventa il leader dei janjaweed: i diavoli a cavallo che seminavano il terrore assaltando i villaggi, saccheggiando, bruciando, stuprando. Ricordo che durante un viaggio per un reportage a Nyala, la capitale del Darfur meridionale presso cui sorgeva uno sterminato campo profughi, il solo evocare il suo nome provocava il panico. Ma dopo la fine della dittatura, con la sua abilità camaleontica, Hemeti, è riuscito a darsi una patina di democraticità come uomo del popolo.

Nello Stato con due eserciti la democrazia però dovrà attendere. Prevarrà probabilmente l’autocrate che riuscirà a ricevere più appoggi dai rispettivi sponsor. Al-Buhran è sostenuto dall’Egitto che cerca di contrastare con questa alleanza la diga sul Nilo progettata dall’Etiopia. E, sia pure indirettamente, dagli Stati Uniti che temono il consolidamento in Sudan del Gruppo Wagner, i paramilitari russi sempre più presenti sullo scacchiere africano.
Hemeti gode dei favori della Russia che gli cede armi in cambio dei minerali pregiati estratti dai territori controllati dalla sua soldataglia e dalla promessa di installare una base navale presso Porto Sudan. Ma ha anche il sostegno della porzione orientale della Libia dominata da Khalifa Haftar, degli Emirati e dell’Arabia Saudita per il contributo di soldati fornito – nella guerra in Yemen ormai agli sgoccioli – alle truppe governative schierate contro gli houti finanziati dall’Iran.
Un intreccio intricatissimo di interessi che riproduce in parte, e su scala minore, il conflitto che in Ucraina oppone Stati Uniti e Russia. Ma in questo scenario più defilato entrambe le potenze agiscono su procura evitando di sporcarsi le mani. Mettendo però in allerta anche l’Europa, e segnatamente l’Italia, per le masse che ingrosseranno il fiume di migranti spinti dalla disperazione verso le nostre sponde.