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Perché il Pentagono sta “aiutando” Mosca a coprire i suoi crimini di guerra

Il dipartimento della Difesa si è finora rifiutato di collaborare con la Corte penale internazionale

Gennaro MansibyGennaro Mansi

US Secretary of Defense Lloyd Austin participates in a news conference at the Pentagon in Arlington, Virginia, USA, 16 November 2022 ANSA/EPA/MICHAEL REYNOLDS

Time: 3 mins read

Il Pentagono che dà una mano alla Russia. Potrebbe essere la trama di un’avvincente spy story – se non fosse tutto verissimo.

Secondo fonti anonime ben informate consultate dal New York Times, il Dipartimento della Difesa starebbe infatti attivamente impedendo all’amministrazione Biden di presentare alla Corte penale internazionale dell’Aia le prove acquisite dalle agenzie di intelligence statunitensi sulle atrocità russe in Ucraina.

Il motivo – chiaramente – non ha nulla a che fare con segrete liaisons tra Arlington e Mosca. Si tratta infatti di una più prosaica maniera di non creare un precedente pericoloso che, in un futuro non troppo remoto, finirebbe coll’esporre gli americani alla medesima scure giudiziaria che più nell’immediato colpirebbe il Cremlino.

Per comprendere il perché bisogna tornare al 1998, anno in cui è stato firmato lo Statuto di Roma ed è stata istituita la Corte penale internazionale, un tribunale mondiale permanente che vigila sui casi di crimini di guerra, genocidio e crimini contro l’umanità.

Tra gli Stati che hanno ratificato lo Statuto, sottoponendosi volontariamente alla giurisdizione della Corte, figurano i Paesi dell’Unione europea, tutto il Sudamerica, il Regno Unito, il Canada, l’Australia, e tanti altri.

Non ci sono gli Stati Uniti, che pur avendo sottoscritto lo Statuto di Roma nel 2000 (durante la presidenza Clinton), non hanno mai ratificato il trattato – ossia non l’hanno mai fatto entrare in vigore – poiché timorosi che un tribunale non-americano avesse giurisdizione penale sui cittadini americani. Nel 2002 George W. Bush revocò addirittura la (simbolica) firma, mentre il Congresso si è nel frattempo premurato di limitare all’osso qualsiasi tipo di contributo statunitense al tribunale.

ICC Prosecutor, Karim A.A. Khan QC (icc-cpi.int)

Un piccola inversione di marcia si è verificata sul finire della presidenza Bush (senior), quando il Governo USA ha aperto al riconoscimento dei pronunciamenti del tribunale – non in quanto sentenze giuridicamente vincolanti bensì come “fatti” sostenuti da “un ampio sostegno internazionale”. La collaborazione tra Corte dell’Aia e Washington ha sfruttato quindi un’inerzia positiva che ha raggiunto il suo acme durante l’amministrazione Obama. Prima di ri-naufragare con Trump.

Il casus belli risale al 2017 e riguarda l’avvio di un’indagine sui presunti crimini di guerra commessi dagli statunitensi in Afghanistan, ai tempi di Bush junior. Vedersi concretizzare lo spettro di un’inchiesta che vedeva gli USA sul banco degli imputati ha spinto Trump – un leader già di per sé poco prono all’internazionalismo – a congelare la collaborazione con la Corte e sanzionare diversi funzionari della Corte (con il segretario di Stato Mike Pompeo a bollarla assai poco diplomaticamente come “corrotta”).

L’atmosfera è però tornata ad acquietarsi con l’uscita di scena del magnate newyorkese. Joe Biden, sulla falsariga di quanto fatto dal suo ex capo, ha deciso di riallacciare i rapporti con l’Aia e concordato un vitale do ut des: via le sanzioni e in cambio sospesa l’inchiesta. Affare fatto e “amici come prima”. Anzi di più. Tanto che lo scorso dicembre il Congresso ha eccezionalmente consentito al Governo federale di cooperare con le indagini della Corte e, quindi, di fornire le prove dei presunti crimini di guerra russi commessi in Ucraina.

Non poteva essere altrimenti, dato che l’indagine internazionale avviata in primavera dal procuratore-capo Karim Khan è frutto anche delle sollecitazioni di Washington. E sul suo successo gli statunitensi hanno un ruolo decisivo, dal momento che dispongono di dati d’intelligence che documenterebbero accuratamente i presunti crimini compiuti dalle truppe di Mosca.

Worker exhumes bodies from the mass grave near the St. Andrew and All Saints Church in Bucha city of Kyiv (Kiev) area, Ukraine, 13 April 2022 ANSA/EPA/OLEG PETRASYUK

Il dilemma amletico, però, rimane: al Governo statunitense conviene collaborare con la Corte?

A credere di sì – e quindi a voler assicurare (metaforicamente) alla giustizia Putin e i suoi accoliti – sono la Casa Bianca, i dipartimenti di Stato e di Giustizia e quasi tutte le agenzie di intelligence (CIA inclusa).

A pesare è però il “veto” ingombrante del Pentagono, la cui opposizione ha finora fornito un involontario assist a Mosca. Secondo il dipartimento di Difesa, infatti, le pur odiose malefatte russe non rientrano nella giurisdizione della Corte dato che la Russia, come gli USA, non ha mai ratificato lo Statuto di Roma.

Una posizione tanto politicamente machiavellica quanto giuridicamente controversa. E che rischia di vanificare gli sforzi degli inquirenti.

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Gennaro Mansi

Gennaro Mansi

Giornalista, si occupa principalmente di affari internazionali e di rapporti tra Occidente e Oriente A journalist with a background in comparative law, Gennaro mainly covers world affairs and West-East relations

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