Si è concluso con un sostanziale passo avanti l’incontro a Ginevra tra le delegazioni di Stati Uniti e Russia, guidate rispettivamente dalla vice-segretaria di Stato Wendy Sherman e dal vice-ministro degli Esteri Sergej Rjabkov. Nelle otto ore di fitto colloquio, iniziato nella prima mattinata locale, il negoziatore russo ha rivelato che Mosca non ha alcuna intenzione di invadere l’Ucraina. “Non c’è motivo di temere un qualche scenario di escalation,” ha spiegato Rjabkov ai giornalisti dopo l’incontro, definito “difficile, lungo, molto professionale, profondo, concreto, e senza tentativi di sorvolare su alcuni punti spigolosi.”
La capo-delegazione statunitense si è rifiutata di parlare dei colloqui odierni come di un negoziato, classificandoli invece come “una discussione, una migliore comprensione dell’altro e delle priorità altrui”. Ha però ribadito che Washington non ha intenzione di prendere “decisioni sull’Ucraina senza l’Ucraina, sull’Europa senza l’Europa, o sulla NATO senza la NATO” – ivi inclusi eventuali veti russi sull’ingresso di Kiev nella NATO (considerata da Mosca una linea rossa di sicurezza). “Non permetteremo a nessuno di chiudere la politica delle porte aperte della NATO”, ha precisato Sherman in relazione ai desiderata messi nero su bianco dal Cremlino alla NATO qualche settimana fa e ri-accennati nel colloquio telefonico Biden-Putin.
Anche Rjabkov, dal canto suo, ha manifestato insoddisfazione per l’incomprensione americana “della necessità di una decisione in un modo che ci soddisfi”, pur ammettendo di aver avuto la sensazione che Washington abbia “preso molto sul serio le proposte russe e le (abbia) studiate profondamente”.
📸Protocol is always a must!
Meanwhile, 🇷🇺/🇺🇸 negotiations on security guarantees in #Geneva are in full swing. The talks promise to be long and substantial pic.twitter.com/RQILoRMUVW
— Russian Mission in Geneva (@mission_russian) January 10, 2022
L’incontro è quindi servito a esorcizzare la prospettiva di un’escalation militare nell’est ucraino, sebbene le parti rimangano sostanzialmente ferme sulle loro posizioni: la Russia, che mantiene un’imponente presenza militare a ridosso del confine con l’Ucraina, ha richiesto assicurazioni vincolanti e immediate che la NATO non si espanda ulteriormente verso est in territori ex-sovietici come Ucraina o Georgia, volendo soprattutto evitare che l’Alleanza utilizzi il territorio sovrano dei detti Stati per installazioni militari di tipo offensivo.
Gli statunitensi si sono detti disponibili a venire incontro a Mosca sulla questione dello spiegamento di missili nello spazio post-sovietico, ma a condizione che la Russia dimostri con i fatti di impegnarsi a disinnescare la crisi ucraina. Al contempo, Washington si è detta fermamente contraria ad escludere a priori l’ipotesi di accesso di Kiev nella NATO, ribadendo che scegliere le proprie alleanze militari è un diritto sovrano del Governo ucraino su cui il Cremlino non può avere alcun potere di veto.
Poche ore prima del meeting, le due delegazioni si erano incontrate in una cena informale di lavoro sul lungolago ginevrino. In quell’occasione, Sherman aveva sottolineato al collega russo “l’impegno degli Stati Uniti a favore dei principi internazionali di sovranità, integrità territoriale e libertà delle nazioni sovrane di scegliere le proprie alleanze”, come riportato dal portavoce Ned Price. Poco dopo, Rjabkov aveva rilasciato un’intervista all’agenzia russa RIA Novosti, affermando che Mosca “ha bisogno di garanzie legali (…) che la NATO non si espanda ulteriormente, eliminare tutto ciò che l’alleanza ha creato dal 1997 sotto l’influsso di fobie anti-russe”. Il riferimento è al rapido ingresso nell’Alleanza Atlantica di ex componenti del Patto di Varsavia quali Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria, più tardi seguite da Bulgaria, Romania, Slovacchia, Estonia, Lettonia e Lituania nel 2004. “Sono 30 anni che sopportiamo la posizione di un altro paese così com’è” – aveva detto Rjabkov, che aveva poi chiosato: “Ora l’altra parte deve mostrare flessibilità. Se non sono in grado di farlo, allora dovranno fare i conti con un peggioramento della loro sicurezza”.

Intanto emergono i primi dettagli sulle contromisure di Washington e dei suoi alleati europei in caso di invasione russa dell’Ucraina. Come ribadito più volte nelle ultime settimane, non ci sarà alcun intervento militare da parte statunitense o NATO, bensì una strategia di carattere eminentemente sanzionatorio che, si augurano Casa Bianca e Dipartimento di Stato, dovrebbe essere abbastanza dura da dissuadere il Cremlino. In primo luogo, contro la Russia potrebbe essere imposto un embargo commerciale dei beni made in USA o con tecnologia statunitense. Sono infatti allo studio del Dipartimento per il Commercio una serie di misure che vanno dal semplice divieto di esportazione di microchips a Mosca (come già sperimentato con la Cina) fino all’extrema ratio consistente nel blocco della vendita di tutti i beni prodotti negli States o con componenti elettroniche statunitensi, quale che ne sia l’assemblatore finale o il produttore.
Sul piano finanziario, l’obiettivo dell’amministrazione Biden è quello di assestare un colpo più incisivo al Cremlino rispetto a quanto fatto da Obama all’indomani dell’invasione russa della Crimea nel 2014. Una delle “opzioni nucleari” sul tavolo riguarda l’esclusione di Mosca dal network SWIFT. Una mossa che equivarrebbe a fare terra bruciata intorno alle principali istituzioni finanziarie russe, rendendo decisamente più ostica la loro interazione con il resto del mondo, dal momento che SWIFT costituisce la principale rete di comunicazione interbancaria del globo ed è utilizzata da 11.000 operatori di 200 Paesi per i pagamenti transfrontalieri. Tuttavia, alcuni esperti temono che escludere la Russia dal sistema SWIFT (dal nome della società con sede in Belgio che assegna il relativo codice) possa danneggiare tanto la Russia nel breve periodo quanto gli Stati Uniti nel lungo: la pressoché certa reazione russa consisterebbe nell’utilizzo di sistemi alternativi in collaborazione con la Cina, che potrebbero così arrivare a mettere in discussione la primazia di SWIFT (strumento d’influenza occidentale-statunitense) nei pagamenti internazionali.

Sono infine previste contromisure anche a livello militare, malgrado la riluttanza di Washington a farsi trascinare in un eventuale conflitto diretto dalle potenziali conseguenze semi-apocalittiche. Ad annunciarle è stato, due settimane fa, il capo di Stato maggiore USA Mark Milley durante un colloquio con il generale russo Valerij Gerasimov. Milley ha ammesso che l’esercito russo supererebbe agevolmente la resistenza delle forze armate ucraine. Esperti del Pentagono e analisti del settore concordano nel ritenere che l’esercito di Kiev sia fin troppo debole e sottoarmato per cercare di tenere testa al gigante orientale, nonostante l’acquisto di equipaggiamento americano per 2,5 miliardi di dollari dal 2014 (di cui 450 milioni solo nel 2021). Tuttavia, ha aggiunto Milley, a quel punto Washington farebbe affluire fondi e armi per fomentare la guerriglia insurrezionale degli ucraini contro l’invasore russo – una resistenza paragonata a quella opposta dai mujaheddin afghani all’Armata rossa tra il 1979 e il 1989.
In caso di attacco, e specularmente alle contromosse di Washington, anche la NATO potrebbe mettere fiato sul collo al Cremlino ampliando il proprio contingente militare dispiegato ai confini orientali dell’Alleanza, presumibilmente dalla regione baltica alla Romania. Lo ha minacciato venerdì il segretario generale Jens Stoltenberg all’emittente nazionale norvegese NRK, aggiungendo che “tutti i Paesi europei sono liberi di scegliere la propria strada” – comprese le alleanze militari.
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