“I leaders libanesi non hanno alcun diritto di dividersi e paralizzare il Paese“. A tuonare contro la classe politica di Beirut è il Segretario Generale delle Nazioni Unite, António Guterres, nel secondo giorno della visita ufficiale nel Paese dei cedri. Guterres ha deciso di recarsi presso il porto della capitale, colpito da una violentissima esplosione che il 4 agosto 2020 ha raso al suolo buona parte delle infrastrutture portuali e ucciso almeno 221 persone. Secondo il Segretario Generale portoghese, “(i)l popolo libanese e le famiglie di tutte le vittime meritano risposte e giustizia, che possono essere raggiunte solo attraverso un’inchiesta imparziale, scrupolosa e trasparente“.
Diversi i temi trattati durante il suo intervento: in apertura, Guterres ha ringraziato pubblicamente il popolo libanese per la sua “generosità nel dare rifugio a persone che scappano da conflitti” – e in particolare ai quasi 200.000 profughi palestinesi ospitati in campi di accoglienza sul territorio. Un’ospitalità che, ad opinione del capo dell’ONU, mette in risalto lo spirito libanese di “coesistenza e tolleranza.”
Sull’altro versante, quello della crisi politico-finanziaria che attanaglia la repubblica mediorientale, Guterres ha espresso preoccupazione riguardo l’impatto che questa sta causando alla popolazione. Non è stato il solo a lanciare l’allarme: la Banca mondiale ha già definito la situazione libanese come una delle crisi umanitarie peggiori dal lontano 1850.
A causare l’ultima drammatica recessione è stato uno shock finanziario che ha radici lontane. Sin dalla fine della guerra civile degli anni ’90, le autorità libanesi hanno deciso di dare stabilità alla valuta nazionale (la lira) legandola al dollaro, a un rapporto di 1.507 (lire) a 1 (dollaro). Il meccanismo ha funzionato per circa un ventennio, quando le primavere arabe hanno stravolto il quadro politico-finanziario nella regione e gli investitori esteri hanno iniziato a fuggire. La risposta della Banca centrale è consistita in un vero e proprio schema Ponzi, come spiega in un articolo il New York Times: per attrarre i dollari necessari a mantenere stabile la valuta nazionale, le banche hanno proposto tassi d’interesse altissimi a chiunque depositasse dollari nelle banche del Paese. Proprio come nella celebre truffa, però, per pagare gli interessi la Banca centrale avrebbe avuto bisogno di un numero sempre crescente di nuovi depositi. Quando il quadro è diventato chiaro, gli investitori si sono ritirati definitivamente lasciando le autorità finanziarie con il cerino in mano. Con il risultato che la lira, e chi la possedeva (la popolazione libanese) si è ritrovata in mano poco più di pezzi di canta dal valore infimo.

Il governatore della Banca centrale ha recentemente chiesto ai partners internazionali un pacchetto di aiuti da 12-15 miliardi di dollari per dare respiro all’economia nazionale, ed è attualmente in corso una trattativa con il Fondo Monetario Internazionale per reperire i fondi.
A complicare la situazione ci ha pensato poi l’esplosione del porto, causata dalla conservazione impropria di materiale altamente infiammabile (nitrato di ammonio). Non solo l’esplosione ha danneggiato una grossa fetta delle abitazioni vicine, ma ha di fatto paralizzato il commercio marittimo, riducendo ancora più all’osso import ed export già logorati dalla pandemia.
All’elemento finanziario si accompagna la crisi politica. Dallo scorso settembre la carica di Primo Ministro è occupata da Najib Mikati, l’uomo più ricco del Paese, la cui squadra di Governo non si riunisce però da metà ottobre. A pesare sono i dissidi con due partiti sciiti: il celebre Hezbollah (“Partito di Dio”) e Amal, che contestano la conduzione delle indagini sull’esplosione e chiedono la rimozione del giudice Tarek Bitar. La sua colpa sarebbe quella di aver messo sotto i riflettori dell’indagine due ex ministri sciiti, Ali Hassan Khalil e Ghazi Zaiter, rispettivamente ex ministro delle Finanze ed ex ministro dei Lavori Pubblici.
La convergenza tra crisi politica, shock finanziario e dramma umanitario fa del Libano una vera e propria bomba ad orologeria pronta ad esplodere in qualsiasi momento. Un “assaggio” si è visto nella serie di proteste che hanno scosso il Paese dal 2019 alle ultime settimane. Anche per questo motivo Guterres si dice speranzoso sulle prossime elezioni, programmate per il maggio 2022: “Elezioni parlamentari libere e giuste (…) saranno un’opportunità essenziale affinché la gente faccia sentire la propria voce.” Ma l’appello, più che sulla popolazione, dovrà fare breccia nelle sale dei bottoni della politica.