In principio erano i Facebook Files, una serie di report “scottanti” del Wall Street Journal che metterebbero in luce il cinismo imprenditoriale del colosso di Menlo Park. Lunedì sono arrivati i Facebook Papers, un’ulteriore sfilza di documenti segreti pubblicizzati da diciassette pubblicazioni europee e statunitensi. Con ogni probabilità, gli ultimi due mesi passeranno alla storia come il bimestre più delicato della storia di Facebook – forse ancora peggio dello scandalo Cambridge Analytica di inizio 2018.
La “gola profonda” e principale accusatrice del CEO Mark Zuckerberg è un’ex dipendente, l’ingegnere Frances Haugen, che ha deciso di uscire allo scoperto all’inizio di settembre per ribellarsi ad un sistema a suo avviso diventato insostenibile. Nella testimonianza resa davanti al Senato statunitense lo scorso 5 ottobre, Haugen non aveva usato mezzi termini: Facebook metterebbe “i propri profitti astronomici prima delle persone”, alimentando “letteralmente la violenza etnica” in Paesi come Myanmar ed Etiopia.
La mole di accuse emersa in queste settimane è impressionante ed eterogenea. Dal non aver posto un freno alla pubblicazione di fake news durante la campagna elettorale del 2020 (alimentando il culto della setta QAnon), agendo a buoi scappati solo dopo l’assalto al Campidoglio, all’aver di fatto introdotto una distinzione tra utenti di Serie A e di Serie B: ai primi, principalmente celebrità e personaggi politici di spicco, sarebbe stato infatti concesso un margine di libertà di espressione assai più ampio rispetto ai secondi, con dirigenti di alto livello a stabilire se e cosa censurare (nel caso degli utenti “normali”, la decisione è invece effettuata da semplici moderatori). Gli intrecci tra tecnologia e politica non si limitano peraltro alle discusse elezioni statunitensi, ma coinvolgono attori governativi come il Vietnam socialista. Secondo il Washington Post, alla dirigenza di Facebook nel 2020 fu imposto un aut-aut dalle autorità di Hanoi: silenziare le critiche contro il Governo vietnamita pubblicate dagli utenti del social network oppure andare via dal Paese. Zuckerberg decise di assecondare l’esecutivo per continuare le attività nello Stato, giustificando oggi quella scelta come il male minore per le sorti della libertà d’espressione nel Paese asiatico.
La lista di compromessi politici di Facebook è corposa: in India avrebbe chiuso un occhio nei confronti di un gruppo nazionalista indù autore di numerosi post islamofobi, nel bel mezzo di un’ondata di manifestazioni religiose che a Delhi (tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020) è costata la vita a decine di musulmani. In Medio Oriente è invece emerso come Apple stesse seriamente prendendo in considerazione l’idea di eliminare le applicazioni mobile di Facebook e Instagram dal suo App Store. Motivo: le due piattaforme erano diventate un vero e proprio mercato del traffico di esseri umani, dove domanda e offerta trattavano liberamente l’acquisto di ragazze, spesso oggetto di successivi abusi sessuali nell’indifferenza di chi avrebbe dovuto vigilare (ossia il gigante cyber).
Gran parte delle carenze di Facebook sarebbe dovuta, secondo Haugen, alla mancanza di risorse e interesse da parte di Menlo Park, soprattutto nei confronti dell’utenza non statunitense. L’ex “talpa” ha definito le versioni di Facebook extra-americane una “versione rudimentale” e con assai meno controlli rispetto a quella a stelle e strisce. I numeri sembrano darle ragione: l’87% delle risorse del social network viene incanalato nel mercato statunitense (che rappresenta solo l’8% dell’utenza complessiva), e solo il rimanente 13% al resto del globo. Ciò contribuisce a innescare un circolo vizioso in cui i contenuti ad ottenere più visibilità, almeno nel 92% dei casi, sono proprio quelli più offensivi e violenti, che ottengono più reactions e rimangono online più a lungo.

Quest’ultimo dato è stato uno dei tanti sottoposti all’attenzione della Camera dei comuni britannica, che lunedì ha ascoltato la deposizione della Haugen. Proprio mentre i media rilanciavano la seconda tranche di accuse a Facebook (i Facebook Papers, continuazione dei Facebook Files), la whistleblower ha paragonato la politica dell’engagement a tutti i costi a “uno sversamento di carburante” capace di inquinare irrimediabilmente l’oceano dell’opinione pubblica, attraverso la radicalizzazione e l’hate speech. Il tour europeo della Haugen proseguirà l’8 novembre con una testimonianza al Parlamento europeo. Nel frattempo, proprio a Londra è all’esame di Governo e Parlamento una nuova legge, la Online Safety Bill, che intende impiegare il pugno duro con i giganti del web, comminando una sanzione fino al 10% del fatturato mondiale annuale in caso di ritardi nella rimozione di contenuti pericolosi come fake news e post razzisti, omofobi e violenti.
Dal canto suo, Menlo Park continua a negare che la società sia coinvolta nella promozione attiva o passiva di contenuti dannosi, rivendicando la scelta di aver investito 13 miliardi di dollari e assunto 40 mila impiegati per la sicurezza degli utenti in tutto il mondo.
Allo scandalo dei Facebook Files si aggiungono anche le indiscrezioni del New York Times. Citando Howard Fischer, ex legale della Securities and Exchange Commission (SEC), il quotidiano ritiene probabile l’avvio di un’indagine dell’autorità di vigilanza sui conti societari di Facebook, che – secondo l’accusa – sarebbero meno positivi di quanto voglia far credere Zuckerberg. Nonostante tutto, però, il colosso continua a far registrare fatturato e profitti da capogiro: nel terzo trimestre del 2021 i ricavi sono aumentati (lievemente sotto le attese) del 17%, raggiungendo i 9,1 miliardi di dollari. E, secondo gli esperti, il quarto trimestre si preannuncia persino migliore. Scandali permettendo.