“Giudicheremo i talebani per quello che fanno, non per quello che dicono”. Le parole del presidente del Consiglio italiano Mario Draghi, al termine del G-20 straordinario sull’Afghanistan di martedì, riecheggiano quelle pronunciate poche ore prima del portavoce del Dipartimento di Stato statunitense. “I talebani saranno giudicati per le loro azioni, non solo per le loro parole”, aveva detto Ned Price la scorsa domenica dopo una due-giorni di incontri a Doha tra diplomazia a stelle e strisce e regime afghano. La strategia occidentale non potrebbe essere più chiara: sì al dialogo; sì persino a una moderata collaborazione, no al riconoscimento del nuovo emirato islamico.
Riconoscere il regime change afghano significherebbe infatti conferire definitiva legittimità al gruppo islamista, che dopo la rapida ritirata statunitense ha impiegato una manciata di settimane per riprendersi il Paese cui era stato costretto ad abdicare nel 2001. Al contempo, quella del riconoscimento internazionale è una partita su cui gli studenti coranici si giocano un’importante fetta del prossimo futuro: ottenerla consentirebbe a Kabul di operare sul mercato finanziario globale (chiedendo prestiti a Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale), ma anche di sbloccare i circa 10 miliardi di dollari attualmente in pancia alla Banca centrale dell’Afghanistan.

La situazione di scarsa liquidità del Governo afghano angoscia peraltro tanto i talebani, quanto Washington e Bruxelles (oltre a Pechino e Mosca). Gli “occidentali” non hanno alcuna intenzione di finanziare un esecutivo integralista, ma sono consapevoli che a farne le spese potrebbe essere una popolazione civile già martoriata da decenni di guerra, innescando l’ennesima crisi umanitaria nel Grande Medio Oriente.
L’allarme è stato rilanciato dal segretario generale dell’ONU António Guterres, che ha sottolineato come la mancanza di un’incisiva azione internazionale potrebbe provocare un effetto domino catastrofico sia per gli afghani sia per la sicurezza globale. Il caos in Afghanistan porterebbe infatti al proliferare del ”flusso di droghe illecite, (e di) reti criminali e terroristiche”. Il segretario portoghese ha quindi invitato la comunità degli Stati a “trovare il modo di far respirare di nuovo l’economia” pur “senza compromettere i principi”.

A rispondere per prima all’appello è stata l’Unione europea, che in apertura del vertice virtuale G-20 ha annunciato un pacchetto di aiuti da 1,2 miliardi di dollari. La commissaria Ursula Von der Leyen ha giustificato il passo avanti per “evitare un enorme collasso umanitario e socio-economico”. Il contributo UE sarà composto da due porzioni: circa 635 milioni di dollari verranno destinati a bisogni umanitari “urgenti” della popolazione, mentre il resto verrà stanziato per aiutare i Paesi vicini a gestire l’afflusso di profughi afghani in fuga dal nuovo regime.
Beninteso, non è solo il sentimento filantropico a muovere Bruxelles: la misura serve anche ad evitare che l’esodo afghano si propaghi incontrollabilmente fino alla frontiera europea, aggravando la già critica situazione migratoria nel Vecchio Continente. La Germania ha a sua volta annunciato un contributo di 700 milioni di dollari, mentre gli statunitensi avevano già avanzato proposte di aiuto nell’incontro di Doha.
Le varie tranches di denaro, però, non andranno a finire nelle casse di enti statali o ONG legate al regime. Destinatarie dei fondi saranno infatti “organizzazioni internazionali indipendenti che operano sul campo”, così da scongiurare (almeno sulla carta) che parte del denaro venga dirottato dai talebani per scopi tutt’altro che umanitari.

Il clima, tra Occidente e talebani, si sta dimostrando in fin dei conti quello del più schietto pragmatismo: malgrado nessuno sia a suo agio con l’altra parte, le “colombe” di entrambi gli schieramenti stanno tessendo una cornice di collaborazione che riesca a prevenire il peggio per la popolazione afghana. Su alcune questioni regna però ancora il disaccordo: non solo sul riconoscimento internazionale, ma anche sulla collaborazione strategico-militare per sradicare lo Stato islamico nella provincia di Khorasan. Il gruppo, affiliato allo Stato islamico e noto con l’acronimo ISIS-K, si è reso protagonista di un’escalation di attacchi terroristici in tutto il Paese, l’ultimo dei quali ha provocato venerdì la morte di una cinquantina di persone in una moschea a Kunduz. I talebani ritengono di essere in grado di affrontare i terroristi autonomamente, anche se la comunità internazionale teme che le frange più violente di talebani e ISIS-K possano fare fronte comune contro i “talebani moderati” fautori del dialogo con gli occidentali. Dal canto suo, il portavoce talebano Suhail Shaheen ha rassicurato all’Associated Press che il suolo afghano non verrà utilizzato da gruppi estremisti per lanciare attacchi all’estero – come previsto dagli accordi di Doha firmati in era Trump.
Uno dei nodi gordiani di più difficile soluzione riguarda però il trattamento di donne e minoranze. Secondo Draghi, “solo quando la comunità internazionale verificherà che sono stati fatti dei progressi” su questi temi, si potrà discutere di riconoscimento internazionale dell’emirato – aggiungendo che, ad oggi, “questo non è avvenuto”.
Da sottolineare infine due clamorose assenze: quella di Vladimir Putin e Xi Jinping (la Cina è tra le nazioni favorevoli allo sblocco dei fondi per aiutare il regime di Kabul). I due capi di Stato hanno infatti inviato due rappresentanti in loro vece al vertice con Biden, Merkel e gli altri leader G-20. Secondo Draghi, l’assenza era stata già comunicata a Palazzo Chigi e non è in alcun modo indicativa del disinteresse russo-cinese a una concertazione internazionale sul tema. Il 20 ottobre, intanto, gli studenti coranici sono attesi proprio a Mosca per colloqui di alto livello con il Cremlino.