Martedì saranno sei mesi di presidenza per Joe Biden. Mezzo anno difficile per il capo della Casa Bianca confrontato dalla lotta al coronavirus, dalla disoccupazione, dalla ristagnazione economica e dalla costante guerriglia di delegittimizzazione lanciatagli dall’ex presidente Donald Trump. E non solo. Biden ora è alle prese anche con i cyber attacchi russi e cinesi in una Nazione divisa, come dimostra anche l’andamento della campagna vaccinale.
Ciò nonostante la popolarità del presidente, secondo i sondaggi di opinione, è molto alta, e continua ad aumentare. Per FiveThirthyEight il 52.5 % degli americani approva il suo operato contro il 42.5% che invece biasima le sue scelte. Anche gli altri sondaggi “promuovono” Biden: YouGov addirittura gli dà 16 punti di differenza (58 a 42), Morning Consult, che ha esaminato un campione demoscopico molto più ampio degli altri sondaggi (15 mila intervistati in 18 Stati) nientemeno dà un consenso popolare più rilevante con il 52% delle persone intervistate favorevoli alle scelte di Biden contro il 32% dei contrari.
La popolarità del presidente però si scontra con la realtà politica: anche se la maggioranza degli americani è con lui l’opposizione blocca con successo le sue iniziative. Da mesi oramai il piano per la modernizzazione delle infrastrutture naviga tra i meandri del Senato con continue modifiche alla ricerca di un appoggio bipartitico che alla fine dei conti è solo di facciata. Dai 2 mila miliardi inizialmente richiesti da Biden per l’American Job Plan , complice l’affannosa ricerca del sostegno bipartitico per questo gigantesco piano di investimenti per rendere più moderne autostrade, reti ferroviarie e aeroportuali, così come acquedotti e ponti, ne sta scaturendo uno molto più ridotto, da poco meno di mille miliardi. La strategia è che poi, una volta approvato, grazie al bizantino metodo del “reconciliation” (per l’approvazione del quale non c’è più bisogno della maggioranza qualificata e quindi non può essere bloccato con il filibustering), si porteranno avanti i piani dell’American Families Plan forzatamente accantonati per ottenere l’appoggio bipartititico. Un balletto politico per portare alcuni repubblicani a sostenere il piano della Casa Bianca e nello stesso tempo per mantenere l’appoggio dei democratici più liberali, già sul piede di guerra dopo i tagli sociali fatti per ottenere l’appoggio dei repubblicani per il piano bipartitico. Il leader della maggioranza democratica al Senato, Chuck Schumer, ha detto che il piano verrà presentato in aula per la discussione mercoledì.

La continua minaccia del coronavirus e tutte le sue varianti continua ad influenzare la vita quotidiana negli Stati Uniti. Oggi proprio per le incertezze derivanti dalla lotta al coronavirus sono stati bruciati miliardi di dollari in tutte le borse mondiali. A Wall Street l’indice Dow Jones per timore di una nuova ondata di contagi ha perso più di 900 punti. Ma anche gli altri indici S&P 500 e Nasdaq hanno registrato ingenti perdite. Ed incredibilmente vaccino e politica vanno a braccetto: negli stati repubblicani la percentuale dei vaccinati è bassa e l’emergenza Covid è tornata a riaccendersi con la variante Delta. Si tratta degli stessi stati che hanno varato le leggi per rendere più difficile esprimere il voto, che continuano la campagna xenofoba contro l’immigrazione e quella sulla decisione delle donne di interrompere la maternità. Stati conservatori dove i cambiamenti vengono fatti solo in maniera restrittiva. Ed in questi Stati la disinformazione sui vaccini e sulle teorie cospirative legate alla pandemia fa proseliti.
Tra gli evangelici non essere vaccinati è diventato un punto fermo come per evidenziare un rapporto diretto con il Padreterno tra chi merita e chi demerita di superare la pandemia. E la follia viene alimentata da una campagna di disinformazione orchestrata sulle piattaforme social. Oggi il New York Times riporta che il Dipartimento di Stato ha formalmente accusato la Cina degli attacchi cibernetici alla Microsoft, attacchi sia per prendere in ostaggio aziende americane sia per lanciare con i trolls massicce campagne di disinformazione sulle piattaforme social. “Gli Stati Uniti e altri Paesi nel mondo ritengono la Cina responsabile per il suo irresponsabile, distruttivo e destabilizzante atteggiamento nel cyberspazio, che pone una minaccia per la nostra economia e per la sicurezza nazionale” afferma il segretario di Stato, Anthony Blinken. “Un gruppo senza precedenti di alleati e partner – inclusi l’Unione Europea, la Gran Bretagna, l’Australia, il Canada, la Nuova Zelanda, il Giappone e la Nato – si uniscono agli Stati Uniti nel criticare la malevole cyberattività” della Cina, afferma un funzionario dell’amministrazione, sottolineando che “è la prima volta che la Nato condanna le cyberattività della Cina”.

La pericolosità della disinformazione e della propaganda dell’odio gli Stati Uniti l’hanno vista il 6 gennaio scorso. A questo proposito lunedì a Washington c’è stata la prima sentenza per l’assalto al Congresso: Paul Alan Hodgkins di 38 anni è stato condannato a 8 mesi di prigione per aver preso parte ai disordini. Hodgkins si è dichiarato colpevole e ha detto al magistrato di essersi pentito del suo gesto “E’ stata una decisione folle da parte mia e mi pento di averla presa” ha detto a Randolph Moss, il magistrato che, dopo aver preso atto che Hodgkins è incensurato e che dalle indagini degli agenti dell’Fbi veniva descritto come uno dei tanti dimostranti che non aveva avuto contatti fisici con la polizia, lo ha condannato ad 8 mesi di carcere. Probabilmente questo sarà il metro che verrà usato nelle sentenze di tutti quelli che sono stati identificati e arrestati ma che non hanno fatto atti di violenza nei confronti degli agenti. Finora le persone individuate e arrestate sono circa 600, ma per una cinquantina di loro, quelli delle milizie degli Oath Keeepers, Three Percenters, Proud Boys, le condanne saranno molto più pesanti per la premeditazione.

Questi intrecci di disinformazione, follia, esaltazione, manipolazione dell’opinione pubblica da parte dei paesi nemici degli Stati Uniti sono stati denunciati dal Guardian nei giorni scorsi e non hanno avuto risalto negli Stati Uniti. Secondo il giornale britannico Vladimir Putin personalmente ordinò ai servizi russi di sostenere Trump, da lui ritenuto “mentalmente instabile”, alle elezioni presidenziali del 2016. Alla base di queste rivelazioni il giornale cita documenti che si ritiene siano stati fatti trapelare dallo stesso Cremlino e che il Guardian ha fatto esaminare da esperti indipendenti per verificarne l’autenticità. Putin decise di intervenire annunciandolo in una sessione del Consiglio di sicurezza nazionale tenuta il 22 gennaio del 2016: erano presenti, oltre al presidente, tutti i capi dei servizi ed i ministri senior. Una Casa Bianca guidata da Trump, concordarono i vertici russi, avrebbe aiutato Mosca ad assicurarsi i suoi obiettivi strategici, tra i quali figuravano il “disordine sociale” negli Stati Uniti ed un indebolimento della posizione negoziale del presidente americano con i tradizionali Paesi alleati. Secondo il Guardian alle tre agenzie di spionaggio russe venne ordinato di trovare modi pratici per sostenere Trump e da lì cominciò il bombardamento della disinformazione da parte dei troll sulle piattaforme americane.
Ma queste non sono le uniche rivelazioni clamorose uscite in questi giorni. Secondo due giornalisti del Washington Post, Carol Leonning e Philip Rucker, autori del libro I alone can fix it che sarà in libreria da domani, il Capo di Stato maggiore congiunto, il generale Mark Milley, era scosso dall’idea che Donald Trump e i suoi alleati potessero tentare un golpe dopo la sconfitta elettorale. Per questo Milley – insieme ad altri alti ufficiali – pianificarono vari modi per fermarli. Carol Leonnig e Philip Rucker – scrivono tra l’altro che Milley e gli altri capi di stato maggiore parlarono di un piano che prevedeva le dimissioni – annunciate separatamente – di ciascuno di loro pur di non seguire ordini provenienti dalla Casa Bianca che avessero giudicato illegali, pericolosi o imprudenti. In particolare, spiegano gli autori, il generale Milley temeva che qualcosa di sinistro stesse per accadere alla luce della decisione del presidente uscente di licenziare il ministro della difesa Mark Esper e delle dimissioni del ministro della Giustizia William Barr.