Tra le strade della Bosnia si può sentir parlare di un gioco, “The Game”.
Ha regole insolite, molti partecipanti e un montepremi che vale una vita intera. C’è chi fa giusto un paio di tentativi, ma anche chi, e sono tanti, gioca decine e decine di volte.
L’obiettivo è uno solo: passare clandestinamente la frontiera bosniaco-croata, un luogo che si staglia tra montagne e fiumi gelidi. Non importa come, la si può attraversare da soli, in due, in cinque, in gruppi di novanta, con l’abbigliamento giusto o con solo un paio di scarpe logore ai piedi. L’importante è andare di là. Chiamare casa e dire “ce l’ho fatta”.

Certo, se la partita va male, il prezzo da pagare è alto. Si torna indietro con la schiena livida, le dita rotte e le tasche vuote. I militari al confine vogliono farti capire che sia meglio non tentare un’altra volta. “Rimani lì – dicono con i loro modi bruschi – rimani lì e tutto questo non ti succederà”.
In Bosnia i migranti sono tanti, persone in transito che non vogliono restare nel Paese, ma cercano di arrivare in Europa. Quando gli chiedi da dove vengano, la maggior parte ti risponde “Afghanistan”, o “Pakistan”, ma non è avere a che fare con algerini, nigeriani, indiani, nepalesi o siriani.
Molti vengono raccolti all’interno dei campi governativi. Quello di Lipa, uno dei più grandi, ha preso fuoco poco prima dello scorso Natale. Lì dentro si trovano circa 850 persone, anche se contarle una per una non è sempre facile. Vivono circondate dalla neve e da un campo minato risalente ai tempi della guerra dei Balcani che non è mai stato messo al sicuro, ma c’è una logica dietro al punto esatto in cui hanno deciso di costruirlo: immerso nel nulla, per la popolazione bosniaca è impossibile da vedere. E se non si vede, suggeriscono alcuni, è come se non esistesse.

Qualche migrante, per mancanza di posti o per libera iniziativa, non trova rifugio nei campi governativi e sceglie la via dei “wild camps”, i campi selvaggi: capanne nel bosco o edifici abbandonati, dove gli uomini, quasi sempre adulti, si dividono autonomamente per nazionalità.
In questi luoghi dove la vita è un continuo terno al lotto, capita però di incontrare anche qualche figura inaspettata.

Adid è afghano e ha 5 anni. Ha una palla in mano, ride fragorosamente e giusto una settimana prima ha provato il game, fallendo. Suo padre ha la schiena segnata, mostra le foto mentre racconta la sua storia e non si capacita del motivo per cui, al confine, la polizia abbia deciso di picchiarlo davanti a suo figlio. Pensarci è strano, ma Adid è nato in viaggio, mentre i suoi genitori avevano già iniziato a migrare. Lui è abituato a essere nomade, a non avere una casa e a portare con sé quei pochi oggetti di cui dispone. Non ha mai giocato con un suo coetaneo, non ha mai dormito su un letto, probabilmente non si è mai seduto su una sedia. La sua vita è tutta racchiusa in quella palla gialla che porta sempre sotto al braccio e questo gli basta per riuscire a sorridere.
A raccontarcelo sono alcuni volontari di “BolognasullaRotta”, un progetto nato nelle prime settimane del 2021 dopo che alcune associazioni bolognesi hanno deciso di agire in aiuto delle migliaia di migranti bloccati sul confine bosniaco-croato, al termine della rotta balcanica. In spedizione vengono mandati sei volontari, con il compito di consegnare direttamente in Bosnia quanto raccolto in Italia. “Un movimento sociale – spiega uno di loro – che partendo dal basso vuole creare una serie di piccole buone abitudini in città, destinate a durare nel tempo. Ciascuna delle vite sospese lungo la linea bosniaco-croata continuerà nei prossimi anni a fare il proprio corso, con o senza questa iniziativa. Tuttavia, chi si muove per questo progetto crede che sia bello, oltre che giusto, prendere una posizione chiara, a prescindere dal risultato e dalla portata delle proprie azioni: per mettersi al fianco di chi, adesso, resta dalla parte meno fortunata del confine”.

In Bosnia hanno portato 850 pasti finanziati dalle donazioni di Bologna e hanno organizzato una raccolta di aiuti umanitari che si terrà ogni due o tre mesi. Si sono poi attivati creando un piano per informare e sensibilizzare la cittadinanza sul tema della rotta balcanica, una striscia di terra su cui ogni giorno si gioca la vita di centinaia di persone.
Ed è proprio questo uno degli obiettivi più grandi di “BolognasullaRotta”: accendere nelle persone la consapevolezza che essere nati in Italia determini una serie di differenze macroscopiche rispetto a essere nati a Kabul.
“Io non mi sento responsabile della situazione attuale – confessa un volontario – ma so che se tra dieci anni ci ritroveremo a parlare e ci saranno ancora persone su quel confine, vuol dire che avrò sbagliato qualcosa anch’io”.