Una esperienza quella del Covid che ha inciso sulla pietra come la fragilità del sistema politico economico e sociale, governato quasi esclusivamente da uomini, ha ceduto di fronte alla crisi creata dal virus. Una crisi, che ha evidenziato, per converso, il ruolo e contributo essenziale del lavoro delle donne nell’ambito delle cure, delle relazioni famigliari, del prezioso supporto dato ai figli per colmare la carenza scolastica.
Ma secondo i dati ISTAT, la crisi ha nello stesso tempo ha fatto registrare una perdita di 344.000 posti di lavoro delle donne tra il terzo trimestre 2019 e il terzo trimestre del 2020 e lo scorso dicembre ben 99.000 sono stati i posti di lavoro perduti dalle donne dovuti alla precarietà dei contratti. Se a ciò aggiungiamo che l’Italia sta affrontando la crisi partendo da un debito pubblico di 2.569,3 miliardi, con una evasione fiscale che sottrae ogni anno allo Stato più di 100 miliardi di euro, c’è da chiedersi come si potrà riassorbire nel mercato del lavoro i 3 milioni di donne che hanno perso il loro lavoro part-time. Non ci si deve sorprendere quindi che ogni indicatore sulla condizione femminile colloca l’Italia agli ultimi posti di qualsiasi classifica europea. Di fronte a tale situazione la grande speranza di poter rendere giustizia alle rivendicazioni delle donne ci viene offerta dal Recovery Fund/Plan (conosciuto anche come Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, PNRR).
L’arrivo di questo 8 marzo 2021 si preannuncia all’insegna di un evento silenzioso e vissuto nel privato a causa delle restrizioni dettate dall’emergenza Covid. Le grandi manifestazioni festose di piazza rimarranno nel cassetto dei ricordi insieme alle mimose. Ma silenziose non sono le associazioni che lottano e lavorano, e che profondamente credono nel cogliere ogni opportunità per far entrare in scena le donne, per riattivare una mobilità sociale e colmare le disuguaglianze di genere, sociali e territoriali. Sulla linea di queste considerazioni si sono mosse oltre 45 associazioni femministe italiane, coordinate dall’associazione D.I.Re, nel redigere e sottoscrivere le proposte elencate nel documento Position Paper: ‘Il Cambiamento che Vogliamo. Proposte femministe a 25 anni da Pechino. Un documento, questo che detta le linee guida per le pari opportunità da integrare al Recovery Found/Plan governativo (Fondi della Next Generation EU) e sistemi attuativi a favore della parità di genere. Nel progetto vengono delineate le linee guida e priorità di interventi su cui investire le risorse del Recovery Fund/Plan: sviluppo inclusivo, protezione sociale e potenziamento dei servizi sociali, disposizioni contro la violenza, e riconoscimento e opere di contrasto per abbattere la disuguaglianza economica e disuguaglianza di genere.
“Con questo documento lanciamo una sfida all’attuale sistema economico e politico per combattere le disuguaglianze sociali, economiche e di genere, ulteriormente accentuate dalla crisi pandemica” ha dichiarato la presidente di D.i.Re, Antonella Veltri. “Il nuovo piano di investimenti ci offre l’opportunità di invertire la tendenza del sistema patriarcale, sessista e razzista, dove lo sfruttamento delle persone e dell’ambiente è da troppo tempo la norma. Le proposte delle donne portatrici di altri e nuovi valori e priorità sono essenziali nell’esercitare un fruttuoso cambiamento nella nostra società post-Covid”.
Infatti, come si evince dal documento l’Italia ha bisogno di seri cambiamenti strutturali, con nuovi assetti economici e produttivi dove si dia riconoscimento, spazio e valore al lavoro delle donne. Inoltre, di pari importanza è la centralità e trasversalità di supporto alla educazione/istruzione come opportunità di mobilità sociale, miglioramento della qualità di vita e prevenzione alla violenza.
Ma i contenuti elencati e sottoscritti dalle associazioni delle donne spesso non convergono con gli obiettivi delineati dal Recovery Fund/Plan, infatti “La maggior parte delle risorse, vale a dire il 57%, del Recovery Fund/Plan è destinata a settori ancora prettamente maschili” dichiara Linda Laura Sabbadini, Direttore Generale dell’ ISTAT, “solo una residuale incidenza finanziaria viene destinata a settori sociali come asili nido, scuola, imprenditoria femminile e strumenti a favore della donna e della famiglia. Questo sta a testimoniare come, purtroppo, nel nostro paese ancora si intrecciano l’arretratezza fra politiche sociali e politiche di genere”, continua la Sabbadini “E’ impressionante il dato che sul totale di coloro che hanno perso il lavoro, a causa dell’emergenza Covid, il 70 % sono donne, nonostante le stesse donne siano state il pilastro della cura e abbiano prestato il loro essenziale servizio in lavori a rischio”. Necessita quindi un nuovo piano di rinnovamento delle infrastrutture sociali che faccia giustizia alle gravi carenze socioeconomiche e disparità di genere.
Posizione, questa, condivisa e rafforzata dalle proposte avanzate da diverse organizzazioni di donne e rappresentate da Giovanna Badalassi di Ladynomics, thinktank in economia e politica di genere, in una recente audizione alla Camera dei Deputati, “Abbiamo proposto una strategia di ‘contenimento di danno’ per indicare quote dedicate all’occupazione femminile e una ‘compensazione’ di ulteriori fondi strutturali da destinarsi sia a settori economici ad elevata presenza occupazionale femminile sia a progetti specificatamente rivolti alle donne” ha dichiarato la dr. Badalassi “è importante che il PRNN preveda un forte investimento nelle infrastrutture sociali (asili nidi, cura per anziani, rafforzamento dell’istituto scuola etc..) in sintonia con i dettami della Commissione Europea. Il governo Conte ci ha ascoltato, ora siamo in attesa delle decisioni del nuovo governo Draghi”.
Quello che fortemente le donne rivendicano è una posizione di coinvolgimento come protagoniste nella cabina di regia in tutti i contesti decisionali (politico, economico, lavorativo, della ricerca e della comunicazione/media). La presenza delle donne esperte è ormai abbondantemente diffusa sul territorio e pervade tutti i settori, è la loro voce di esperte che rivendica spazi importanti nei ruoli decisionali della società.
Ma, oltre alle questioni sopra citate, questo 8 marzo è una occasione per riflettere sulla condizione di donne vittime della violenza brutale dell’uomo. In stato di isolamento, durante il lockdown, le mura hanno impedito alle urla di essere udite e più difficoltoso è stato per le donne trovare vie di fuga. Si è così registrato, come si evince dai dati del ministero dell’Interno, che a fronte di una forte diminuzione del numero complessivo di omicidi, si registra una significativa diminuzione di vittime di sesso maschile e un aumento delle vittime di sesso femminile. Così, mentre nel 2019 le vittime donne rappresentavano il 32% del totale degli omicidi, nel 2020 il dato si attesta a 48% con l’aggravante che il 77% degli omicidi sono avvenuti in ambito familiare ed affettivo. Un fenomeno che fa registrare una media di 115 donne uccise ogni anno, e che dall’inizio di questo nuovo anno ha già visto 12 donne uccise per mano di partner, mariti o fidanzati. Numeri e statistiche che non lasciano spazio ad interpretazioni, piuttosto ci descrivono una mattanza messa in atto contro la volontà della donna quando si ribella per contrastare una cultura misogina e violenta.
“Nonostante la legislazione italiana si sia dotata di valide leggi per la tutela della donna” dichiara l’avvocato Andrea Catizone, impegnata sulle tematiche a difesa delle donne, “quello che viene a mancare è una particolare attenzione alla trasmissione educativa di valori contro la violenza. Inoltre, c’è da rilevare che il nostro sistema è deficitario in relazione alla protezione di cui le donne, che denunciano le violenze subite, avrebbero diritto. Nel momento in cui le donne denunciano, la pericolosità dei carnefici aumenta in correlazione alla fragilità e vulnerabilità delle donne. Deve passare la convinzione che quando la donna denuncia diventa responsabilità dello Stato proteggerla, lasciarla da sola significa esporla a gravi rischi”. Tristemente, va infatti evidenziato che quando si conoscono più a fondo le storie delle donne, un gran numero di femminicidi avviene dopo che la donna ha esposto denuncia.
A questi sconcertanti numeri vanno aggiunti i dati relativi ai reati “Spia”, nel senso che precedono i casi di femmincidi e sono dei campanelli di allarme che dovrebbero allertare. I reati spia sono ampliamente documentati dall’associazione del “Telefono Rosa” che li classifica in: maltrattamenti, stalking, violenza sessuale.
Ne emerge che “durante il lockdown sono state ricevute il 73% di telefonate in più dello stesso periodo del 2019. In questo periodo di pandemia la cultura della violenza sta imperando” dichiara la dr. M. Gabriella Carnieri, presidente del Telefono Rosa “la nostra associazione ha registrato in questo ultimo anno non solo violenza fra le mura domestiche ma anche lungo le strade, dove i giovani si incontrano per sfidarsi con aggressioni fisiche. Potremmo interpretarla come una possibile reazione alla passività imposta dal lockdown. Quello che comunque si evince è che esiste negli uomini giovani o meno, una cultura di violenza che ‘deve’ essere agita. Se non si abbatte questa cultura a pagare un alto prezzo, anche con la vita, saranno sempre le donne e i figli”.
Nonostante il Telefono Rosa sia da anni diffuso sul territorio nazionale e presti lavoro nelle scuole per sensibilizzare sia i giovani che le loro famiglie “non abbiamo ancora trovato una formalizzazione curriculare nei programmi scolastici. Questo ritardo denota mancata sensibilità in relazione a questa problematica e una volontà politica che fa fatica a concretizzarsi. Dalla nostra esperienza pluridecennale, siamo certi che per spezzare il ciclo della violenza si debba partire dalla scuola, e dalla certezza della pena. Troppo spesso gli assassini vengono premiati con la riduzione di pena, per buona condotta, scontando un periodo di reclusione troppo breve” dichiara la dr. Carnieri e prosegue “vorremmo che il nuovo Recovery Fund, Next Generation tenga in considerazione questi dati e la nostra esperienza sul territorio”.
Un 8 marzo 2020 che, quindi, sebbene veda le donne italiane ancora in lotta per l’ottenimento di diritti essenziali, offre condizioni di possibile cambiamento strutturale del ruolo delle donne nella società. Sebbene la pandemia abbia contribuito a metter in evidenza le ingiustizie strutturali e disuguaglianze di ordine sociale, economico e di genere radicate nella società, il Recovery Fund/Plan (PRNN) offre una risorsa finanziaria per mettere in opera un cambiamento che deve partire dalla centralità dei servizi di cura, liberare la donna dai ruoli a lei attribuiti dalle vecchie tradizioni paternalistiche di cui ha beneficiato una economia bastata sul capitalismo neoliberista. Questo è uno dei primari insegnamenti che l’emergenza Covid dovrebbe aver seminato.
Ma il cambiamento richiede ed impone la presenza e il protagonismo delle donne nei punti nevralgici dei tavoli decisionali in modo trasversale: “Vogliamo dunque esserci perché la ricchezza della società è nel valorizzare il contributo di ogni persona e perché ogni persona ha il diritto-dovere di dare il suo contributo alla crescita della comunità”. Parole scritte da Tina Anselmi, divenuta nel 1991 Presidente della Commissione nazionale per la parità e le pari opportunità tra uomo e donna. Un monito a continuare a far sentire la nostra voce,
Buon 8 Marzo 2021 a tutte le donne per un futuro di Rinascita.