È stato il giorno della difesa lampo di Trump al processo di impeachment che vede l’ex presidente imputato di aver incitato l’insurrezione del 6 gennaio. Parole scontate quelle dette dagli avvocati nelle tre ore di difesa del loro assistito, pronunciate per orecchie sensibili pronte a trovare un minimo appiglio per non assumersi la gravosa responsabilità della decisione. Un conflitto evidente in un processo politico ove il concetto di giustizia è risibile confrontato con quello della convenienza politica personale. Un processo anche un po’ ridicolo non solo nella forma, ma anche nella sua struttura con i senatori che dovrebbero essere i giurati, e quindi imparziali, che non solo dichiarano e difendono o condannano ancor prima del procedimento l’innocenza o la colpevolezza dell’imputato, ma addirittura ieri sera tre senatori repubblicani si sono incontrati con gli avvocati della difesa per preparare insieme l’arringa di oggi. In un processo normale, in sede giudiziaria, civile o penale, una cosa simile vedrebbe gli avvocati radiati dall’ordine, il processo annullato e da rifare e i giurati davanti al magistrato. Ma non è così nell’impeachment al Senato.
Tutti danno per scontato che i democratici non hanno i 17 voti dei repubblicani necessari per condannare l’ex presidente. Unica novità è che il leader di maggioranza e quello di minoranza si sono accordati affinché i senatori possano fare domande agli avvocati e ai congressman pubblici ministero. “La mia – ha detto l’anziano senatore Bernie Sanders – sarà di chiedere ai legali se credono che il presidente abbia vinto le elezioni”. E c’è rimasto male, perché uno degli avvocati di Trump si è pure indignato affermando che la domanda non era pertinente e non aveva nulla a che fare con l’accusa di incitamento all’insurrezione.
E così quando gli avvocati di Trump hanno condannato anche loro le violenze dell’assalto al parlamento e ripetutamente affermato che la colpa di tutto era dei media e della esasperata retorica dei democratici e che Trump era anche lui una vittima perché gli attacchi erano stati preparati in anticipo e quindi non potevano essere la conseguenza delle sue incendiarie parole, i senatori repubblicani non hanno applaudito, ma dai loro volti era evidente che avevano trovato l’appiglio per l’assoluzione. L’avvocato difensore di Trump definiva l’impeachment un “atto di vendetta politica ingiusto e palesemente anticostituzionale” che “dividerà ulteriormente la nostra nazione”, parole che davano anche la giustificazione: assoluzione per il bene della Nazione.
Michael Van der Veen, uno degli avvocati di Trump, ha aperto così il suo intervento difensivo. “Nessuna persona pensante potrebbe seriamente credere che il comizio di Trump prima dell’assalto al Congresso sia stato un incitamento alla violenza o all’insurrezione”, sostenendo poi che “le parole di Trump incoraggiarono esplicitamente i presenti ad esercitare i loro diritti pacificamente e patriotticamente”. Quel “We fight like hell and if you don’t fight like hell, you’re not going to have a country anymore” è stato declassato ad una frase teorica, ad un pensiero protetto dal primo emendamento della Costituzione. “Le parole di Trump incoraggiarono esplicitamente i presenti ad esercitare i loro diritti pacificamente e patriotticamente” ha detto l’avvocato dicendo poi che erano state mal interpretate da un “piccolo gruppo” di fan. I legali hanno inoltre comparato i seguaci di Trump che assaltavano il Campidoglio ai militanti di Black Lives Matter che manifestavano contro il razzismo. Paragoni ridicoli, per una difesa ridicola e che, nonostante tutto, molto probabilmente vedrà assolto il loro cliente.
Questo processo è “cultura della cancellazione costituzionale”, ha aggiunto mentre David Schoen, un altro dei difensori di Trump, ha contestato all’accusa di aver mostrato “video inediti dell’assalto al Congresso” senza darne accesso prima alla difesa e di aver “fabbricato e alterato le prove” col montaggio dei video. Così il partito che si presenta con l’etichetta “Legge e ordine” è lo stesso che minimizza la gravità dell’accaduto del 6 gennaio al Campidoglio, che definisce un atto spontaneo di alunni esagitati l’invasione del Congresso e che, non parla né dei morti e dei feriti, né della caccia ai parlamentari miracolosamente portati in salvo, né dell’inazione del presidente per fermarli. Aggiungendo poi che i video delle violenze sono “false prove costruite per condannare Trump”.
Tre ore di arringa difensiva accorciata – dicono i tre avvocati – per dar modo di poter far osservare lo Shabbat, il riposo ebraico dal calar del sole del venerdì, al tramonto del sabato. E così nelle tre ore successive i senatori di entrambi i partiti hanno posto le domande e i manager, i congressmen che hanno svolto il ruolo del pubblico ministero e gli avvocati di Trump hanno dato le risposte. Quasi tutte le domande sono state sulle ripetute affermazioni di Trump sulle elezioni truccate, sui brogli elettorali, usate per infiammare gli animi, per incitare i suoi supporters a respingere l’esito elettorale.
Il dibattito è durato tre ore. Un dibattito interessante non tanto per le argomentazioni, ma per i salti mortali fatti dagli avvocati di Trump per non rispondere.
Si è concluso con il capo della maggioranza democratica Chuck Schumer che con il leader della minoranza repubblicana Mitch McConnell, ha proposto la medaglia d’oro del Congresso all’agente Eugene Goodman, quell’agente afroamericano che da solo ha fronteggiato la massa di assalitori che davano la caccia ai parlamentari. Alla fine, il sipario è calato. I lavori e voto aggiornati a domani mattina alle 10.
“Sono impaziente di vedere cosa faranno i miei amici repubblicani” ha detto dalla Casa Bianca il presidente Joe Biden ai giornalisti. Ma lui, sa bene cosa faranno.