IL PRIMO ESAME TESTIMONIALE NEL 1981
Nel libro I diari segreti Giulio Andreotti vengono citati alcuni atti istruttori compiuti da me e dal mio collega giudice istruttore Piergiorgio Gosso nel 1981. In quel preciso periodo come giudice istruttore avevo scoperto il primo indizio di sospetta collusione di persone corrotte nell’ambito del traffico di Petroli.
In particolare aveva appena trovato un intervento dell’uomo di fiducia (e “console” di Andreotti in Sicilia) Salvo Lima in favore di uno dei protagonisti corrotti della truffa, un importante funzionario dell’ufficio di imposte di fabbricazione sul petrolio. Si chiamava Enrico Ferlito ed era un ingegnere siciliano, dirigente dell’ufficio imposte di fabbricazione su petrolio di Torino (UTIF). Decisi quindi, con le forme possibili in base alla legge di quel periodo, di sentire come testimoni sia Lima, sia Andreotti.
In entrambi i casi andai a Roma nei rispettivi uffici dei due parlamentari. Per quanto riguarda Andreotti in particolare, andai nel suo ormai famoso e sontuoso ufficio situato vicino al Parlamento e che aveva conservato anche da quando era presidente della commissione esteri.
Come risulta dai verbali pubblicati in giudizio nel processo davanti la quarta sezione penale del Tribunale di Torino, Salvo Lima prima dichiarò di non ricordare nemmeno di conoscere il Ferlito; quindi, riconosciuta la sua attestazione originale esibitagli, disse di non ricordare nulla.
In quel primo incontro, Giulio Andreotti, rispondendo sulla nomina inaspettata del generale Raffaele Giudice a Comandante Generale della guardia di finanza nel 1974, affermò con un atteggiamento sufficiente che «tutto era stato regolare». Proseguii indicandogli quanto contenuto di riferimenti precisi a illeciti nel dossier Mi Fo Biali, di cui avevo potuto solo da poco prendere una prima conoscenza. A questo punto in modo un po’ più sostenuto, e forse irritato nell’apparente impassibilità, sostenne che lui non era mai stato informato del contenuto e delle precise risultanze su comportamenti corruttivi contenuti in quel dossier, redatto a partire dal 1975 dal SID e cioè dai servizi segreti militari.
A quello stadio di indagine io non avevo ancora elementi decisivi per contestare ad Andreotti la sua reticenza. Decisi quindi di rientrare a Torino e di lavorare sodo per approfondire la grave vicenda. Il nostro problema era di non rischiare di entrare in conflitto con le indagini di Roma aperte già per reati formalmente pesantissimi contro la personalità dello stato.
Circa un anno dopo insieme al mio collega Piergiorgio Gosso e con nuovi accertamenti istruttori ricostruimmo con più precisione le condotte del SID e le risultanze di riscontro oggettivo su quell’esplosivo dossier. Dossier che era stato pubblicato per estratti nel mensile OP di Carmine Pecorelli e ritrovato in copia nella sua abitazione dopo il suo assassinio nel 1979. In base ai nuovi atti istruttori e in particolare le deposizioni del capo del SID, amm. Casardi, emerse con certezza che i servizi segreti, e in particolare lo stesso Casardi avevano costantemente informato il ministro di riferimento, e cioè Andreotti, almeno in un primo periodo, su tutto l’andamento delle indagini segrete a carico di quel certo Mario Foligni e di quanto nel corso delle intercettazioni (sulle linee del comando generale della Guardia di Finanza) in merito alla persona e alle condotte criminose del generale Giudice, del capo di stato maggiore generale Donato Loprete e di molti altri alti ufficiali e petrolieri.
L’atteggiamento di Andreotti nel primo interrogatorio fu piuttosto sdegnoso ma sostanzialmente tranquillo anche se seccato di dover rispondere davanti a un giudice dei suoi comportamenti cosiddetti politici. Evidentemente a quell’epoca sapeva che il Parlamento non era assolutamente pronto a richiedere di processarlo.
Questo anche per l’atteggiamento piuttosto ambiguo del Partito comunista, nel 1981-83, soprattutto per il favore con cui veniva vista dal Partito Comunista la politica estera di Andreotti verso i paesi arabi e la Libia.

IL CONFRONTO ANDREOTTI-CASARDI
Molto meno tranquillo fu l’atteggiamento di Andreotti quando lo invitammo nel comando della Guardia di Finanza a Roma in via Labicana per essere nuovamente sentito in confronto con l’ammiraglio Casardi. Dopo brevi esitazioni, Casardi infatti dichiarò e confermò non solo di aver informato costantemente Andreotti durante le indagini sul caso Foligni su quanto di losco era emerso all’interno del comando generale della Guardia di Finanza.
Casardi aggiunse di essersi sentito obbligato ad informare Andreotti dopo che questi era cessato sia della carica di ministro delle Finanze si era quella precedente di Ministro della Difesa. Quindi in quel periodo, Andreotti non aveva più né alcun titolo né competenza di questo tipo di indagine.
La sera stessa terminammo tutti gli atti istruttori rileggendo con preoccupazione ed emozione tutto quanto documentato. Era ormai evidente che vi fossero a carico di Andreotti precisi e gravi indizi di reato di favoreggiamento, o quantomeno di abuso in atti d’ufficio e di falsa testimonianza. Ci recammo quindi tutti e due giudici istruttori, presso la presidenza della Camera dei Deputati dove avevamo già preavvisato la presidente Nilde Iotti di una possibile nostra urgente comunicazione per gravi fatti di reato. Non era infatti possibile per noi procedere ulteriormente in atti istruttori, in base alla normativa di protezione dei parlamentari e dei ministri vigente all’epoca.
Appena fummo ammessi alla presenza della presidente Iotti, ci rendemmo quasi subito conto che l’atmosfera non era per nulla cordiale. La presidente ascoltò la nostra breve relazione orale e ritirò gli atti e tutti gli allegati che avevamo già preparato. In tutta fretta poi ci congedò in maniera piuttosto gelida.

LA SECONDA RICHIESTA DI MESSA IN STATO DI ACCUSA
Nel 1984, il clima politico era in parte mutato. Era emerso un atteggiamento positivo del Partito Comunista, che si era già differenziato chiedendo una seconda dettagliata relazione sulla questione del nomina del generale Giudice in sede di Commissione parlamentare di inchiesta, soprattutto attraverso una efficace azione del on. Ugo Spagnoli, avvocato e persona profondamente onesta e preparata, con cui ebbi successivamente una conversazione personale approfondita e schietta.
La domanda di messa in stato di accusa era questa volta stata redatta principalmente a cura del collega giudice istruttore Aldo Cuva con cui avevo continuato a istruire l’ultimo ramo del processo Petroli. Devo confessare ora che sull’esito di questa ulteriore denuncia – vista la situazione precedente – non avevo molta speranze.

Ma alla luce di alcuni nuovi elementi (un intervento del Cardinale Poletti in una lettera da lui scritta proprio per Andreotti, oltre le dichiarazioni di altri petrolieri tra cui il padrone di una raffineria piemontese, di nome Primo Bolzani) ritenni di non sottrarmi al dovere di sottoscrivere insieme al mio collega gli atti da trasmettere al parlamento.
L’esito, sia pure in maniera più combattuta (almeno formalmente) dal Partito Comunista fu anche qui il «non doversi procedere» al dibattimento davanti all’Alta Corte di Giustizia, allora competente per i ministri, e cioè la Corte Costituzionale in formazione speciale.
Come però ebbe a scrivere Eugenio Scalfari in un editoriale sul giornale La Repubblica del 25 novembre 1984 «si è detto a torto che il dibattito parlamentare avesse come unico tema quella dell’ impeachment ai due ex ministri. Ma non è questa la verità». Il dibattito parlamentare doveva aprire la strada ad un altro tipo di accertamento che solo l’Alta Corte di Giustizia poteva avere i mezzi e le autorità di compiere.
La questione di come fosse stato possibile che una banda di contrabbandieri fosse riuscita a insediare uno dei suoi uomini proprio ai vertici di quel corpo di Polizia che ha come suo fine istituzionale ha proprio quello di combattere il contrabbando e la frode fiscale.
Il voto parlamentare di archiviazione nei confronti di Andreotti e Tanassi rese quindi concretamente impossibile ottenere anche un principio di risposta solo giudiziaria a questa gravissima questione istituzionale e politica.
Scrivendo così la parola fine (almeno dal punto di vista politico-istituzionale) alla vicenda dello scandalo Petroli che può ancor oggi essere giustamente considerata come uno degli episodi più scandalosamente gravi della storia della Repubblica.
Come si giunse ad affidare il vertice dell’istituzione che aveva il compito di combattere le frodi un generale che si rivelò essere il promotore di un’associazione a delinquere, frodatrice e corrotta? Sia Andreotti sia Tanassi si trovavano nei vertici dei Ministeri e dettero il benestare per la nomina del generale dei contrabbandieri. Ancor di più, i servizi di sicurezza intercettarono e riferirono in tempo utile in merito alle condotte e ai progetti criminali del Generale Giudice e di molti altri altissimi ufficiali.
Andreotti ha affermato che in quel tempo, non fu mai informato, ma questo è assolutamente inattendibile. Il rapporto dei servizi di sicurezza sui traffici criminali del gen. Giudice e dei suoi accoliti fu redatto sin da prima del 1976, come lo stesso Andreotti ebbe a confermare di sapere. Con quali motivazioni, la politica non volle affidare l’imputato al giudice naturale affinché si accertasse la sua colpevolezza o innocenza?
Del resto Giulio Andreotti non è stato mai nuovo a queste situazioni. Intendo dire che a lui è capitato un po’ troppe volte di trovarsi ai vertici di un istituzione. Come ignorare che alcuni suoi subordinati, infransero la legge e che alcuni suoi amici malversano contro il pubblico interesse?
Così avvenne per il caso SIFAR.
Così avvenne nella losca vicenda del banchiere Sindona: un importante documento dell’avvocato di costui rimesso ad Andreotti non fu mai trovato… e comunque Andreotti disse di non averlo mai letto.
Nel Caso del Banco Ambrosiano e di Roberto Calvi, è avvenuta più o meno la stessa cosa. Con Roberto Calvi, Andreotti riteneva che fosse un onesto e potente banchiere e con lui intratteneva rapporti di amicizia, fino a suggerirgli informalmente di riprendersi come vicepresidente Orazio Bagnasco che Andreotti aveva in grande considerazione. Naturalmente Andreotti disse di non sapere neanche che Calvi fosse iscritto alla P2, né che fosse sull’orlo del fallimento, né che la Banca d’Italia indagava su di lui fino dal 1977, né che Michele Bagnasco fosse anche lui in grandi guai finanziari.
La stessa ignoranza manifestò sempre Andreotti per l’attività di Licio Gelli che pure anche lui frequentava il «santuario» andreottiano di Palazzo Macchi di Cellere.
Stessa ignoranza per cattivi affari di Gaetano Caltagirone, che pure Andreotti incontrava di frequente e col quale intratteneva rapporti di intimità mai negati.

IN CONCLUSIONE
Anche non voler credere che Andreotti fosse quel mostro di doppiezza che molti hanno descritto, una domanda è inevitabile e doverosa oggi, pur dopo tanti anni dai fatti, con occhio finalmente sereno. Un uomo politico che ha avuto i suoi ordini i generali Maletti, Miceli, Giudice, e come amici e conoscenti stretti Sindona, Gelli, Calvi, Caltagirone etc.. non si era mai accorto di nulla? Non aveva mai sospettato di nessuno? Non ha mai letto le carte che aveva a disposizione e che aveva pur il dovere di leggere? Non ha mai prestato nemmeno attenzione ai quotidiani che erano pieni di notizie su di ciascuno dei personaggi in questione?
Come argutamente disse lo stesso Eugenio Scalfari in un suo editoriale su Repubblica subito dopo la decisione parlamentare di non procedere, «allora se non è il diavolo Belzebù, dovremmo ritenere che era una specie di Bertoldo», del tutto ingenuo e raggirabile. Quadro che contrasta del tutto con la persona reale di Andreotti anche da quello che emerge dall’ appunto dei diari appena pubblicati.
Sembra incredibile e tuttavia anche nell’ultima vicenda, certamente più grave, dell’accusa di mafia, nonostante che a chiare lettere la sentenza finale della Cassazione affermi che egli fu complice della mafia almeno fino alla fine dell’anno 1980, si è riuscito a a fare passare nei media in modo martellante la falsità che egli fosse del tutto innocente e che fosse stato «assolto», mentre la testuale motivazione della sentenza definitiva della Corte di Cassazione indica che fu dichiarata la prescrizione per i fatti di contributo causalmente rilevantissimo all associazione mafiosa «Cosa Nostra» (accertati come veri e attribuiti ad Andreotti) fino al 1980…
TENTATIVI DI CONTATTO IMPROPRI
Nel 1984 io partecipai su invito ad un convegno ad Angera.
Il tema che accettai di affrontare era quello del diritto penale del lavoro e degli inforrtuni e malattie sul lavoro. Andai a quel convegno perché ero curioso di vedere se, come preannunciato come possibilità sarebbe stato presente tra gli altri anche Andreotti. Devo dire che mi stupii che l’invito fosse mantenuto, dati i recenti fatti giudiziari e la loro conclusione, con successive pesanti accuse fatte su tutti i giornali e media contro i «giudici di Torino» proprio ad opera di Andreotti.
Andai quindi e feci un ampia e dettagliata relazione sul tema del diritto penale del lavoro.
Evitai qualunque accenno ai fatti di corruzione ed ai servizi segreti e al dossier MIFOBIALI.
Non mancai tuttavia di indicare come proprio l’esperienza maturata sul campo in materia di processi e istruttorie sulle responsabilità penali di impresa erano state per me fondamentali per affrontare la complessa realtà della criminalità economica e finanziaria ivi comprese le frodi fiscali e tributarie.
Rientrato a Torino dopo un paio di giorni ricevetti a casa una telefonata da parte di uno degli organizzatori del convegno.
Cosa già curiosa perché il mio numero privato di casa era su lista riservata.
La persona al telefono (un uomo di cui non ricordo più il nome ora) si complimentò ancora per la mia relazione e poi disse testualmente: «il presidente e rimasto molto impressionato dalla sua relazione e vorrebbe incontrarla».
Io risposi un po’ tergiversando e dissi che se mi avesse richiamato gli avrei dato la mia risposta. Avevo infatti subodorato una proposta di incontro ambigua e destinata a mettermi in evidente difficoltà ed insomma ad una specie di tranello.
Telefonai a casa al mio capo ufficio di cui avevo massima stima e confidenza, Mario Carassi (un anziano dirigente partigiano di Giustizia e Libertà) e concordammo questa risposta: «dite al presidente Andreotti che per me va benissimo, ma che se vuole incontrarmi lo attendo volentieri nel mio ufficio di giudice istruttore a Torino».
Il messaggio fu evidentemente chiaro per Andreotti e il suo messaggero. Non ricevetti più alcuna notizia o nuova richiesta.