C’è sempre una certa isteria nel dibattito pubblico in Italia, quando occorre misurarsi con la complessità delle questioni europee.
Quello sul MES, il Meccanismo Europeo di Stabilità, all’interno del quale (non sopra, non sotto, non di lato!), con il Pandemic Crisis Support, sono previsti prestiti per “spese sanitarie dirette o indirette”, è un caso di scuola.
- Per ciascun Paese, una linea di credito fino al 2% del PIL. All’Italia toccherebbero circa 37 miliardi di euro, pari alla cifra dei tagli al settore sanitario effettuati negli ultimi 20 anni proprio per favorire il contenimento del debito pubblico, che oggi in Europa i nostri partner pongono come condizione per offrire aiuto finanziario: che scherzo del destino!
- Tassi di interesse negativi per prestiti a sette anni e tassi di interesse pari a zero per prestiti a dieci anni: per l’Italia si stima un risparmio di circa 5 miliardi, soldi che potrebbero essere investiti per altre priorità, come scuola o infrastrutture.
Favorevoli o contrari: risposta secca.
Responsabili o irresponsabili: risposta secca.
Europeisti o sovranisti: risposta secca.
Non funziona così: il manicheismo ideologico mal si addice ad una valutazione ponderata, che dovrebbe invece tenere in considerazione diverse variabili.
La prima e forse più importante variabile è il contesto politico.
Opinioni pubbliche già incattivite dalla crisi economica, e che la pandemia ha reso meno inclini alle concessioni benevole, chiedono ai rispettivi leader nazionali di portare a casa il massimo dei risultati: per i Paesi del Sud significa chiedere solidarietà all’Europa, aiuti economici e nuove (e più flessibili) regole per affrontare e superare la crisi da Covid19; per i Paesi del Nord vuol dire non fare regali “ai Paesi che rubano” o che, nella migliore delle ipotesi, vogliono approfittare della pandemia per ricevere assistenza senza dare in cambio nulla.
Il trionfo dello stereotipo, diventato bussola nel posizionamento politico, è una variabile da cui non si può prescindere se si vuole valutare la natura e l’impatto di una misura.

Chi si ricorda il siparietto del Primo ministro olandese Mark Rutte con un dipendente di una ditta che lo invita a non dare soldi agli italiani?
Chi si ricorda le parole dei Primi ministri o dei ministri delle Finanze dei Paesi considerati “frugali” verso l’Italia e i Paesi mediterranei?
La cornice di regole che si sta definendo serve a rappresentare gli interessi di quei Paesi:
- Non esistono soldi gratis
- Aiuti e soldi solo a determinate condizioni.
Quali sono queste condizioni?

Sono le cosiddette riforme strutturali, già evocate dalla Commissione nel contesto delle raccomandazioni specifiche per Paese pubblicate il 20 maggio scorso, considerate necessarie per ridurre il debito pubblico: quello italiano viaggia intorno al 135% del PIL, ben al di sopra del 60% previsto dal Patto di Stabilità e Crescita, e il disavanzo sfiora il 10,5% del PIL quando dovrebbe essere intorno al 3%.
Occorre ridurre il debito.
Giusto, ma è l’approccio punitivo che rende legittima la diffidenza sulle reali buone intenzioni.
Perché non è indifferente il “come” si riduce il debito così come non è indifferente in quanto tempo si chiede di ridurlo.
Siamo sicuri che le ricette economiche delle formiche d’Europa siano efficaci o sostenibili per una cicala come l’Italia?
La Commissione ha dichiarato che, superata la crisi, non ci sarà la “sorveglianza rafforzata” per i Paesi che decideranno di ricorrere al Pandemic Crisis Support del MES.
Ma quello che nessuno sottolinea è che queste dichiarazioni non sono vincolati. Se domani dovessero cambiare le condizioni politiche, o gli attori politici, questi impegni sarebbero a giusto titolo sindacabili.
In assenza di un accordo scritto vincolante, le condizioni che disciplinano il percorso di rientro del debito sono quelle del MES, un trattato le cui norme e previsioni vincolanti prevedono quella che in gergo ormai tutti chiamano la Troïka.
Per un Paese come l’Italia, in un contesto politico europeo altamente volatile, il rischio di ritrovarsi gli esattori alla porta con la lista dei beni da confiscare o da far fruttare è dunque concreto.
Altrimenti, non si spiegherebbe il rifiuto categorico di Spagna e Portogallo al MES: non è la minore convenienza dei tassi di interesse, quanto la paura di subire un commissariamento che ha spinto questi due Paesi a un posizionamento così netto.

Il Governo non è in una posizione semplice, a livello interno quanto a livello internazionale.
I sovranisti di casa, che si oppongono in modo scomposto al MES temendo sia un cavallo di Troia per la Troïka, sono i principali responsabili dell’indebolimento della posizione negoziale dell’Italia, a cui fanno da contraltare gli euroentusiasti responsabili, artefici in passato dei tagli alla Sanità, per i quali l’Italia non dovrebbe rifiutare l’occasione preziosa offerta gentilmente dall’UE. Per questi campioni di conti ed europeismo dogmatico l’insistenza della signora Merkel sarebbe a fondo perduto e le condizionalità proposte inesistenti o sacrosante e sostenibili.
Il Paese potrà forse evitare di ricorrere al MES solo con un buon accordo complessivo sul bilancio multiannuale dell’UE, sul Recovery Fund (Next Generation EU) e sulle condizioni per accedere ai suoi prestiti e alle sue sovvenzioni. Il negoziato su questo pacchetto di strumenti tra loro collegati è complesso e la credibilità dell’Italia compromessa dalla debolezza del Governo sul fronte interno.
Cosa accadrebbe sui mercati se l’Italia, in ragione delle sue caratteristiche economiche, degli effetti della pandemia e della mancanza di coesione politica interna, fosse l’unico Paese tra i 27 dell’UE a ricorrere alla speciale linea di credito istituita nel quadro del MES?
Quali sono oggi le garanzie che il ricorso al MES non sia interpretato come un marchio infamante, la lettera A scarlatta, il pretesto per un attacco speculativo? E per quanto – e a che prezzo – l’Italia potrebbe essere coperta e sostenuta dalla BCE?
MES e sostegno finanziario in cambio di impegni: questo è quanto propongono i partner europei ai Paesi in difficoltà per uscire dalla crisi.

L’insistenza sulla necessità non più procrastinabile di approvare riforme strutturali come contropartita per gli aiuti è talmente pressante che si ritrova con gli stessi toni su ogni misura in discussione, a cominciare dal dibattito sul Quadro Finanziario Pluriennale (QFP), il bilancio settennale dell’Unione europea, cornice di Next Generation EU, lo strumento per la ripresa economica composto di prestiti e sovvenzioni per un totale di 750 miliardi di euro. Qui si aggiunge anche il vincolo di destinare le risorse concesse alla transizione verde e digitale.
Tutto bellissimo, peccato che i soldi a disposizione non siano sufficienti per sostenere fino in fondo una rivoluzione industriale continentale o macroregionale e che le distorsioni competitive ci sono già e finora sono state alimentate da scelte politiche basate su modelli di sviluppo nordeuropei.
Chi coprirebbe i costi sociali ed economici della trasformazione? In Olanda o in Finlandia o a Malta non avrebbe lo stesso impatto che in Italia, grande Paese manifatturiero, la cui base produttiva diffusa e capillare è di piccole e medie imprese, non sempre ad alto valore innovativo.
Davvero si pensa di poter smantellare un tessuto industriale radicato in modo pacifico, indolore e al risparmio?
Non solo. Il 10 luglio mattina, il Presidente del Consiglio europeo Charles Michel, presentando la proposta di Quadro Finanziario Pluriennale post 2020, ha spiegato che il bilancio europeo sarà finanziato in parte con tasse europee e che, per cominciare, si introdurrà la c.d. Plastic Tax.

Se dovesse passare questa proposta al Consiglio europeo del 17-18 luglio, significherebbe che Italia e Spagna dovrebbero abbondantemente finanziare il Recovery Fund di cui dovrebbero beneficiare, considerato che insieme alla Grecia sono i principali produttori di plastica monouso. E, oltre al danno la beffa: i Paesi del Nord riceverebbero invece degli sconti sul loro contributo al bilancio europeo come contropartita per il via libera all’accordo.
Se a questo si aggiunge l’insistenza sulla necessità di ripristinare pienamente, prima possibile, le regole del Patto di Stabilità e Crescita, attualmente sospese per consentire ai Paesi colpiti di fronteggiare la pandemia, si comprende bene che il clima politico non è dei più indulgenti e che il sistema di regole – tra loro collegate – che si sta costruendo non è a costo zero per l’Italia.
Popolo di santi, poeti e navigatori a cui ora si chiede con una certa pressione di diventare rapidamente anche ragionieri digitalizzati ed ecosostenibili.
Siamo sicuri che l’Italia possa farcela? Siamo sicuri che così le convenga?
Se l’Italia fosse un Paese normale il MES con l’imposizione di determinate condizioni potrebbe forse essere un’opportunità. Ma è anche vero che se l’Italia fosse un Paese normale non avrebbe bisogno di ricorrere al MES.
Se l’Italia fosse un Paese normale otterrebbe maggiore fiducia e avrebbe più titolo per negoziare con i partner europei.
Perché il tema è anche questo: non si fidano. E tanto più non si fidano, quanto più leonine sono e saranno le condizioni per concedere aiuto in tempo di vacche magre.
La fiducia, con buona pace dei sovranisti e degli euroentusiasti, non si compra, si guadagna: è la politica, bellezza!