
“Siamo quelli che rimangono vicino ai vostri cari fino alla fine, confortandoli e tenendogli la mano. In tanti ci chiamano eroi, ma in troppi stanno denunciando proprio noi, i medici in prima linea contro il Covid”.
Moira Febo è una anestesista – rianimatore presso il reparto di terapia intensiva dell’Ospedale Santo Spirito di Pescara – uno dei medici in prima linea contro il Covid-19.
Da quanto tempo è iniziata l’emergenza coronavirus nell’ospedale di Pescara e come si è fatto fronte alla carenza di posti letto e di respiratori?
“L’emergenza coronavirus è iniziata presso la nostra unità operativa tra la notte del nove e dieci marzo quando abbiamo ricoverato il primo paziente. Devo ringraziare il Direttore Rosamaria Zocaro e i responsabili Antonella Frattari e il primario di malattie infettive Giustino Parruti, per la loro tempestività e lungimiranza. Abbiamo infatti iniziato a prepararci da fine febbraio, non appena c’è stata la notifica dei primi due casi di Codogno. Ma non immaginavamo la portata dell’emergenza che ci avrebbe travolto. Non avendo stanze a pressione negativa (stanze di isolamento usate nei casi di malattie infettive n.d.r.) presso la nostra unità di rianimazione, in pochi giorni abbiamo approntato una nuova sala di rianimazione da 22 posti dentro il reparto di malattie infettive. Qui abbiamo accolto i primi casi, poi il contagio è aumentato e abbiamo creato un seconda sala di rianimazione da otto posti letto, prendendo respiratori e monitor dalla sala operatoria e dalla vecchia rianimazione polivalente che è stata depotenziata con soli cinque posti letto, donati delle cliniche private. Lottiamo giornalmente per cercare un nuovo respiratore ed assicurare a tutti l’assistenza dovuta. Le misure di isolamento messe in atto dal nostro governo hanno fatto sì che da noi non sia accaduto ciò che ancora sta accadendo nel Nord Italia. Siamo riusciti e stiamo riuscendo a tamponare la prima ondata di pazienti ed è stata creata poi una rete regionale di rianimazioni Covid. Così abbiamo potuto iniziare a trasferire le persone malate anche presso altre strutture. Ancora oggi, a distanza di un mese, abbiamo bisogno di un posto letto in più e quando non è disponibile usiamo anche le sale operatorie. Infatti abbiamo dovuto interrompere le operazioni già programmate anche per recuperare risorse umane da utilizzare nei reparti Covid”.
Avete anche molti pazienti giovani?
“I giovanissimi sono pochi, il più giovani sono un ragazzo di 23 anni e un uomo di 38. La fascia di età più colpita va dai 40 ai 70 anni. Abbiamo molti cinquantenni ricoverati”.

Quale è la cosa più dura e difficile in questa emergenza: le cure o il lato umano, visto che questi pazienti una volta ospedalizzati non possono più vedere la famiglia e spesso muoiono soli?
“Oltre grande fatica fisica dovuta alla necessità di lavorare con i DPI (dispositivi di protezione individuale n.d.r.) e di non poter espletare le normali necessità fisiologiche per l’ intero turno di lavoro, c’è la grande paura di contaminarsi, il dover rimanere sempre concentrati. Certo, la vera tragedia di questo virus è la solitudine dei pazienti. Quelli che soffrono maggiormente sono quelli che sono svegli, soli, senza il conforto di una persona cara, ventilati con maschere a pressione che lasciano sul viso i segni della sofferenza. Poi ci sono i parenti, rimasti a casa, che hanno lasciato il loro caro in pronto soccorso il giorno del ricovero e da quel giorno hanno solo ricevuto delle notizie telefoniche da un medico che magari non hanno mai neanche visto. Questi familari vivono nella paura e nell’ansia, aspettando quell’unica telefonata giornaliera di pochi minuti, che li conforterà o li getterà nella disperazione. Alcuni parenti non riescono a capire la gravità della situazione e ad alcuni dobbiamo comunicare per telefono che il loro caro è deceduto, dopo giorni e giorni in cui non l’ hanno potuto vedere e possiamo solo immaginare la loro sofferenza perché non l’ han potuto salutare per l’ultima volta”.
Lei ha una bambina di 11 anni, come si regola quando torna a casa?
“Il mio principale pensiero è lei, per cui cerchiamo di mantenere le distanze di sicurezza. Abbiamo separato i bagni, io indosso la mascherina anche a casa, non tocco le sue cose, le sue stoviglie… Lei mi chiede continuamente un’abbraccio, un gesto di affetto che però adesso non le posso dare e per me questo è molto difficile e doloroso visto che abbiamo un rapporto molto stretto”.
Ha paura di contagiarsi? Nel suo ospedale ci sono stati medici che si sono ammalati?
“Certo che ho paura. Nel nostro ospedale si sono contagiati molti medici, nel mio reparto al momento abbiamo un collega sintomatico ma fortunatamente sembrano sintomi non respiratori. Solo da un paio di giorni hanno iniziato a fare i tamponi anche a noi sanitari”.
Come mai non si sono ancora fatti tamponi a tutti i medici, agli infermieri e ai loro familiari?
“Non saprei, credo che non ci siano abbastanza tamponi per tutti. Noi medici, anche se risultiamo positivi, dovremmo comunque lavorare, ma saperlo ci consentirebbe almeno di proteggere i nostri cari e gli altri colleghi con i quali condividiamo spogliatoi, servizi igienici e sale mediche”.
Tutti gli italiani vi sono grati per tutto ciò che state facendo, per la vostra forza e per il coraggio che mostrate giornalmente. Cosa dovrebbe cambiare per aiutarvi a lavorare meglio in futuro?
“Prima di tutto in questo momento abbiamo bisogno di lavorare in sicurezza, di proteggere noi stessi per lavorare serenamente. Sono necessarie risorse umane, medici ma ancora di più infermieri e tute protettive. Per il futuro, la nostra sanità potrebbe migliorare investendo nell’assunzione di un numero maggiore di medici ed infermieri, forza lavoro e magari facendo a meno di molti amministrativi, manager. A mio avviso i premi a fine anno li dovrebbero ricevere quelli che lottano ogni giorno sul campo, non dietro una scrivania”.

Quale è il pensiero che ha ogni giorno o ogni notte prima di andare in reparto a combattere la malattia e ad aiutare i suoi pazienti?
“Per riuscire ad andare avanti e sopportare una situazione di continuo stress è importante saper staccare quando si è a casa. Il mio primo pensiero prima di andare a lavorare è sperare di trovare i presidi di protezione che mi consentono di tornare a casa più serena. Il giorno che non mi sentirò più sicura dovrò separami dalla mia bambina”.
Cosa direbbe a tutti noi, quale è il messaggio che vuole lasciare da medico in prima linea?
“A chi sta a casa voglio dire che l’isolamento sta funzionando, che è l’arma più importante che abbiamo, ancora più importante delle terapie che somministriamo. Ai parenti dei pazienti voglio dire che noi sappiamo quanto stanno soffrendo e che oltre a curare cerchiamo anche di stare vicino ai loro cari, dando affetto e conforto. Poi vorrei approfittarne per dire a tutti una cosa che ci sta molto amareggiando come categoria: noi stiamo rischiando in prima persona perché è il nostro dovere e perché è la nostra missione, però non ci sono solo quelli che ci chiamano eroi, ci osannano e ci applaudono, ma anche molti che hanno già iniziato a denunciare i medici. Ecco, chiederei agli avvocati e alle persone che rappresentano di mettersi una mano sulla coscienza. Non possiamo lavorare serenamente sapendo che in una situazione del genere, dove mancano anche le risorse, dove facciamo ogni giorno l’impossibile, dobbiamo anche temere ripercussioni legali.
Vorrei anche abbracciare virtualmente la bellissima città di New York, che ho visitato la scorsa estate con mia figlia e che sta soffrendo tantissimo in questo momento. Rimanete a casa il più possibile, usciremo da questo incubo solo se ognuno farà la sua parte”.