Lunedì è il 10 febbraio, “Il Giorno del Ricordo”, e molti italiani ancora non sanno che cosa si DEVE ricordare, perché non sanno cosa hanno patito, nel dopoguerra per dieci anni, gli italiani che abitavano le regioni dell’Istria e della Dalmazia, lungo la costa orientale d’Italia, che ora appartengono a Slovenia e Croazia. Non sanno ancora cosa significhino le parole ESODO e FOIBA.
Devo dire che mi si rivoltano le budella quando l’estate ritorno nell’isola della mia famiglia, Arbe nel Quarnero, e sento dei turisti italiani, ignari della storia, chiamarla con il suo nuovo nome Rab. Sì, penso: Rabbiosamente Rab. Ma che cavolo di nome è Rab? E’ stata Arba dai tempi degli antichi Romani, che la fondarono, per secoli. Lussinpiccolo è diventata Mali Lusinj e bene non gli fa… Ragusa, la sesta repubblica marinara italiana, è oggi Dubrovnik. Assonanza con Diabolik… Ma ci sono tanti altri nomi cacofonici: basta guardare la carta geografica. Per esempio Goli Otok, ossia l’Isola Calva, il gulag dell’Adriatico dove i deportati denutriti erano costretti dai loro guardiani titini a spostare pietre tutto il giorno mentre venivano picchiati da altri deportati sotto il sole cocente fino a che si ammazzavano tra di loro. Quando mi appare, percorrendo la costiera, questa terra di sole pietre, penso sempre che esse siano le ossa pietrificate di quei disgraziati. I quali nella maggior parte erano comunisti: italiani che da diverse regioni della penisola si erano trasferiti per vivere il sogno comunista oppure jugoslavi d’ideologia stalinista, che Tito aveva deciso dovessero scomparire, non prima però di averli fatti soffrire in modi indicibili (ho scritto una minima parte delle efferatezze perpetrate).
L’immane tragedia dell’esodo di 350 mila italiani è stata la conseguenza della PAURA, alimentata dalle continue “sparizioni” di connazionali da parte dei comunisti jugoslavi, tra le quali le più “riuscite” erano quelle di gettarli vivi nelle foibe (voragini naturali del terreno carsico) dell’Istria o mutilarli e annegarli con una pietra al collo nel mare della Dalmazia. In questi giorni fervono in diverse regioni italiane incontri “culturali” organizzati da sedicenti storici di etnia slovena, nati a Trieste o in Istria, che sostengono che le foibe siano un falso storico. E qui mi viene da vomitare. E mi chiedo come il nostro Stato permetta quest’ultima umiliazione nei confronti di suoi connazionali. A meno che non ci sia ancora un po’, molta, malafede nel convincimento di certe amministrazioni comunali: “Dopotutto erano fascisti…” Oltre undicimila abitanti inermi, donne, bambini ammazzati, tutti fascisti???

“I nostri genitori, anche qui in Italia, continuavano a parlare sottovoce: era opportuno non farsi sentire, se non si voleva esser tacciati da fascisti. Se oggi abbiamo la possibilità di parlare a testa alta, senza paura di farci sentire, lo dobbiamo all’onorevole Roberto Menia che nel 2004 ha istituito il Giorno del Ricordo” ha detto Massimiliano Lacota, presidente dell’Unione degli Istriani giovedì scorso, a Trieste, alla presentazione delle 50 testimonianze raccolte da Menia in “10 FEBBRAIO. Dalle foibe all’esodo”. Seduta vicino a me la signora Gigliola di Cherso (chiamata così dagli antichi Greci, che i croati hanno pensato bene di modificare in Cres) ha commentato: “Quando uno ha un grande dolore, non parla”.
Piero Del Bello, direttore del Museo degli Istriani, Fiumani e Dalmati ha spiegato che “esule lo sei per obbligo, migrante per scelta, anche se terribile”, aggiungendo che “a casa mia non si parlava proprio, per quel senso di pudore che si era trasformato in vergogna perché non avevi più niente: famiglia, casa, terra. Come puoi ricordare, costruire una memoria se non hai più quel terreno fertile che aveva fatto stare in piedi la tua storia da generazioni? La vergogna si è trasformata in paura, che non ha mai più abbandonato le nostre genti. Bisogna scrivere la propria storia, altrimenti finisce nel silenzio. E Roberto invece ha avuto la fortuna che sua mamma gli ha raccontato.”
Lo scrittore siciliano Pietrangelo Buttafuoco ha commentato che ha trovato volgare che in Senato si accostasse la parola dramma alla foiba, quando questa “è l’apice della tragedia”. E ha sottolineato che la malafede è sempre accompagnata dall’ignoranza, poiché qui “il vinto è stato trasfigurato nella condizione di imputato”. Un discorso poetico e toccante, ma le lacrime mi sono scese quando ha infine parlato Roberto Menia, perché ha espresso il mio sentire.
“Con l’andare degli anni sento sempre più profondo questo legame tutto interiore. Mi fa male guardare dalla riva di Trieste il mare e vedere in lontananza quelle terre che non ho mai abitato. Questi sono ormai luoghi dell’anima per noi: non esistono più. Il nostro cammino non ha senso se non lascia qualcosa. Perché quest’Italia, che è un mosaico meraviglioso, deve perdere i tasselli di questa sua storia? La grande storia di un Paese è fatta di tante piccole storie. E quando toccano il cuore, ti trasmettono qualcosa. Abbiamo il diritto e il dovere di raccogliere tutte le testimonianze e tramandarle ai nostri figli. Simone Cristicchi, che ha scritto il “Magazzino 18”, era venuto a Trieste per scrivere del manicomio e ha scoperto che era pieno di ESULI IMPAZZITI: guardavano l’orizzonte senza parlare…”