La scorsa settimana l’Organizzazione meteorologica mondiale (OMM, in inglese WMO) ha emesso una dichiarazione nella quale afferma che il 2019 appena chiuso è stato il secondo anno più caldo mai registrato dopo il 2016 (l’anno più caldo mai registrato anche a causa della combinazione di un evento molto forte di El Niño, che ha un impatto sul riscaldamento e dei cambiamenti climatici a lungo termine). Le temperature medie degli ultimi cinque anni (2015-2019) e dell’ultimo decennio (2010-2019) sono state le più alte mai registrate.
“La temperatura globale media è aumentata di circa 1,1 ° C dall’era preindustriale e il contenuto di calore degli oceani è a livelli record”, ha dichiarato il segretario generale dell’OMM Petteri Taalas. Così facendo si prevede “un aumento della temperatura da 3 a 5 gradi Celsius entro la fine del secolo”.
Quali saranno le conseguenze è già evidente. Scioglimento dei ghiacci, innalzamento record del livello del mare, aumento del calore e dell’acidificazione degli oceani e condizioni meteorologiche estreme non sono più casi isolati, ma tanto frequenti da non fare più notizia. E secondo la Dichiarazione provvisoria dell’OMM sullo stato del clima globale nel 2019 (già presentato a Madrid in attesa dello studio completo atteso per il marzo prossimo) tutto questo non potrà non avere un impatto grave sulla salute dell’uomo e sull’ambiente.

Nonostante le solite promesse dei governi (peraltro sempre più blande) e le dichiarazioni degli ambientalisti, non si vedono vie d’uscita: “Il 2020 è iniziato da dove il 2019 si è interrotto, con eventi meteorologici e climatici di grande impatto. L’Australia ha registrato il suo anno più caldo e secco in assoluto nel 2019, ponendo le basi per gli enormi incendi boschivi che sono stati così devastanti per le persone e le proprietà, la fauna selvatica, gli ecosistemi e l’ambiente “, ha affermato Taalas.
Anzi si prevede che questa tendenza peggiorerà a causa dei livelli record di gas serra che intrappolano il calore nell’atmosfera. Già i gas serra. Come la CO2. Che fine hanno fatto le promesse di ridurre le emissioni? In barba agli impegni sottoscritti e nonostante l’uso smodato e immorale della “compensazione”, a livello globale le emissioni continuano ad aumentare e nessuno dei principali responsabili sembra fare nulla per cambiare rotta. A livello globale oltre il 50% delle emissioni proviene dall’Asia. Il paese dove maggiori sono le emissioni di CO2 è in assoluto la Cina (responsabile di oltre un quarto delle emissioni in tutto il pianeta!) seguito dall’India. Entrambi si nascondono dietro l’alibi di paesi “in via di sviluppo” o “non sviluppati” per aver margini di manovra ben più ampi e continuare a produrre beni destinati ai mercati dei paesi sviluppati (grazie anche all’abbattimento dei dazi). Subito dopo per emissioni di CO2 troviamo USA e Unione Europea che emettono rispettivamente il 15 e quasi il 10% della CO2 scaricata nell’atmosfera. I paesi più ecologici e verdi sono quelli più “arretrati” in Africa e nell’America Latina. Qui le emissioni di CO2 sono davvero irrisorie rispetto a quelle dei paesi industrializzati e “sviluppati”.
“Sviluppati” o “in via di sviluppo”. Sembrano quasi un eufemismo per nascondere alcune verità. Come quella che è in questi paesi che i consumi sono maggiori e, di conseguenza le emissioni. Fatta eccezione per alcuni paesi come il Qatar e l’Oman (i cui picchi di emissioni pro capite di CO2 sono spiegabili per la disponibilità di combustibili fossili a bassissimo prezzo e poche alternative) e il Kazakhstan, i paesi che fanno registrare le maggiori emissioni pro capite di CO2 sono quelli più sviluppati: USA, Canada, Australia (e poi ci si sorprende se il clima sta cambiando e questo paese sta bruciando), alcuni paesi dell’UE e il Giappone. Ma Cina e India stanno scalando posizioni in questa graduatoria a ritmo vertiginoso (del resto loro non sono ancora paesi “sviluppati”).
Ma c’è un altro aspetto che caratterizza i paesi “sviluppati” o “in via di sviluppo”: il fatto di ospitare molte industrie. E queste di smettere di inquinare o di pagare i danni prodotti dal modo di produrre non ci pensano nemmeno: in Germania il maxi processo contro la Volkswagen per lo scandalo “dieselgate” è ancora in corso e solo ora, dopo anni dal disastro, si parla di una possibile soluzione per via extragiudiziale (ma i colloqui con l’organizzazione tedesca dei consumatori VZBV sono ancora “ad una fase iniziale” e non vi è “nessuna garanzia di successo”. Dei danni causati all’ambiente e alla salute di tutti gli altri europei non si parla nemmeno.
Stessa cosa per il Green Deal europeo: il piano di investimenti della Commissione Europea che dovrebbe mobilitare mille miliardi di Euro per “investimenti sostenibili nel prossimo decennio” ha già fatto sorgere dubbi ai lettori più attenti. Di fatto, pare che le “risorse fresche” siano solo 7 miliardi e mezzo, da spartire tra tutti gli Stati europei. L’Italia dovrebbe ricevere meno di 500 milioni di euro (e così Francia e Spagna), poco di più la Germania. Molti di più la Polonia: quasi due miliardi (perché?). Il punto è che il Green deal, priorità fissata fin dall’inizio dalla Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, prevede investimenti per mille miliardi in dieci anni. Comunque pochi per far diventare l’economia europea davvero “verde”. Ben altra somma rispetto ai 7,5 miliardi. Del resto, la stessa Commissione Europea aveva quantificato in 230 miliardi di euro l’anno l’investimento minimo per raggiungere questo obiettivo. A cosa serviranno quindi questi (pochi) soldi? A riempire le prime pagine dei giornali di promesse “verdi” difficili se non impossibili da mantenere (e a cercare di sbrogliare qualche matassa facendo pagare ai cittadini il conto di qualche azienda che nel frattempo ha continuato a inquinare e causare malattie e morte: non è un caso se c’è chi dice che parte dei fondi saranno destinati all’Ilva, alla Puglia e alla zona di Taranto).
Il vicepresidente esecutivo della Commissione Valdis Dombrovskis, intervenendo nella sessione plenaria del Parlamento Europeo a Strasburgo, ha dichiarato che “Il bilancio Ue aggiungerà fino a circa la metà della cifra e utilizzerà anche la leva finanziaria (investimenti privati favoriti da investimenti o garanzie pubbliche, che mitigano il rischio, ndr)”. C’è già chi, come i Commissari Johannes Hahn (Allargamento) ed Elisa Ferreira (Trasparenza), ha fatto capire chiaramente dove l’Unione europea troverà i soldi: “…c’è bisogno di contributi ulteriori. Da dove? E’ chiaro che vogliamo facilitare gli investimenti pubblici e la modalità di tale facilitazione farà parte della discussione sulle regole di bilancio a partire da febbraio. Se faremo ciò che abbiamo deciso, con i ‘green bond’ e il resto creeremo un ambiente favorevole all’investimento privato grazie alla leva costituita dalle risorse europee”.
A chi tira i fili, tutto questo non importa. Basta far credere che si sta facendo il possibile. O almeno qualcosa. E se poi i numeri dimostrano che non si sta facendo nemmeno questo basta che lo si dica a voce non troppo alta. Che nessuno dica, ad esempio, che le temperature globali stanno crescendo molto più rapidamente di quanto avevano previsto. O che NESSUN paese del G20 (il gruppo dei paesi più industrializzati al mondo), di fatto, ha rispettato le promesse fatte a Parigi. Poche settimane fa un rapporto, “Brown to Green”, realizzato da 14 organizzazioni di ricerca e ONG e basato su 80 indicatori ha dimostrato che tutti questi paesi dipendono ancora troppo dai combustibili fossili, le emissioni legate a trasporti ed edilizia non si stanno riducendo come si sperava (a che serve che tutte le case automobilistiche ormai producano auto ibride) e molti paesi sono fermi sulle rinnovabili (in barba agli spot e alle pubblicità mandate in onda ogni giorno).
Chi sperava che il 2020 potesse essere un anno verde, farà bene a svegliarsi e a rendersi conto che il suo era solo un sogno. Un sogno che per molti australiani minacciati dal più grande incendio a memoria d’uomo (primo ma purtroppo forse non ultimo) è un incubo.