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Gina Di Meo da Baghdad: “Dopo il raid contro Soleimani, la paura della rappresaglia”

A 24 ore dal raid di Trump contro il generale iraniano, abbiamo parlato con l'unica giornalista in questo momento "embedded" con militari americani e anche italiani

Stefano VaccarabyStefano Vaccara
Gina Di Meo da Baghdad: “Dopo il raid contro Soleimani, la paura della rappresaglia”

1 gennaio 2020: Gina Di Meo in Iraq, all'aereoporto d'Erbil in attesa di volare in elicottero con gli americani a Baghdad (Foto da FB)

Time: 4 mins read

Gina Di Meo, giornalista dell’Ansa di base a New York, già collaboratrice de La Voce, si trova dal primo gennaio 2020 a Baghdad. E’ arrivata alla vigilia dell’uccisione, da parte degli americani per ordine del presidente Trump, del top generale iraniano Qasem Soliemani. Gina, campana di Avellino, laurea alla Orientale di Napoli, da 15 anni vive a New York, ma è stata più volte nei paesi “bollenti” del Medio Oriente. Nel 2010, in Afghanistan, mentre era “embedded” (al seguito) sempre con gli americani, rischiò grosso. I talebani presero di mira il convoglio dei mezzi corazzati e si è salvata mentre la sua colonna era sotto il fuoco nemico.

Abbiamo raggiunto Gina a Baghdad, dove ora si trova alla Union III, la base militare sede del Combined Joint Task Force-Operation Inherent Resolve e Joint Operations Command-Iraq, la coalizione internazionale anti-Isis e il comando delle operazioni militari irachene (per lo più americani ma ci sono anche soldati italiani) che sta proprio di fronte all’ambasciata USA, attaccata pochi giorni prima dai dimostranti pro Iran.  Le abbiamo fatto delle domande.

Gina Di Meo in uno dei suoi viaggi in Medio Oriente

Gina perché sei lì proprio ora?

“Sono in Iraq perché gli americani mi hanno proposto un embed con la possibilità di fare diverse attività tra Erbil, Baghdad e potenzialmente la Siria, e anche con gli italiani perché appunto fanno parte della coalizione e sono considerati tra il top per l’addestramento. Purtroppo sono capitata nel periodo peggiore. Ci sono minacce continue quindi è tutto sospeso. Ho passato qualche giorno ad Erbil, una sorta di isola felice rispetto a Baghdad e il 1 gennaio sono riusciti a mettermi su un elicottero e a farmi arrivare nella capitale”.

Cosa hai visto finora?

“Venerdì scorso, sempre sotto scorta sono riuscita a vedere il compound dell’Ambasciata Usa che si trova di fronte alla base. Poi nella notte il raid e quindi siamo come in uno stato di lockdown e giriamo tutti con giubbotto antiproiettile ed elmetto all’interno della base. Pensa non si può usare neanche la palestra e si cammina in due”.

Cosa pensano gli iracheni dell’attacco ordinato dal presidente Donald Trump? A che livello è la tensione?

“Non so cosa pensano gli iracheni del raid perché non riesco a parlare con loro ma mi è capitato di ascoltare parte di una conversazione in cui uno degli interpreti si chiedeva perché il raid proprio in Iraq, perché non eliminare Soleimani in Siria o in Iran o da qualche altra parte?”

E i militari nella base? Come stanno vivendo la guerra ormai alle porte? (Sopra il video del portavoce della coalizione militare, il Colonnello Myles Caggins)

“I militari non dicono molto ma si avverte che sono in agitazione. Hanno incrementato la sicurezza e le misure protettive, come mi ha detto il colonnello Myles Caggins, portavoce della coalizione militare. Che mi ha anche detto che sono preoccupati per la possibilità di attacchi con razzi e aerei.   Tra i soldati semplici impossibile persino l’approccio, la maggior parte di loro è infastidita anche dalle foto. Non vuole correre il rischio di diventare un volto riconoscibile e diventare quindi un possibile target. Ho tentato anche di avvicinare un paio di soldati italiani ma anche loro non vogliono saperne di rilasciare dichiarazioni alla stampa. Union III non è nuova a minacce vista anche la sua posizione strategica. E’ distante una quindicina di minuti dall’aeroporto dove è avvenuto l’attacco americano ma è in pratica anche un cuscinetto dell’ambasciata americana. E’ di per se’ una base poco accessibile dall’esterno e anche se autorizzati bisogna essere sottoposti a diversi livelli di controllo. Difficile uscire anche se in via eccezionale, dopo il ritiro dei manifestanti che hanno assalito il compound sede della diplomazia americana, sotto scorta siamo riusciti ad avvicinarci alla struttura per avere un’idea dei danni subiti. Ora ci fanno capire che potrebbe essere imminente un’escalation degli eventi”.

Ma tu cosa prevedi?

“L’Iraq è come una pentola a pressione potrebbe esplodere da un momento all’altro. Potrebbe anche prospettarsi l’ipotesi che votino contro la presenza della coalizione qui e quindi li mandino a casa. Non sono sicura che questo possa accadere perché ci sono troppi interessi in ballo anche da parte irachena”.

Una foto scattata da Gina difronte all’Ambasciata USA pochi giorni dopo gli incidenti provocati da manifestanti pro Iran

Cosa farai nei prossimi giorni? Cercherai di capire di più andando fuori? Ci sono altri giornalisti con te alla base?

“Potrei uscire dalla base ma a mio rischio e pericolo e dovrei ingaggiare un fixer ma é una spesa che non posso accollarmi. Tuttavia se esco é a mio rischio e pericolo mi dicono. Pare inoltre che la maggior parte dei giornalisti che si trova qui vive in una sorta di area protetta. Al momento sono l’unica ad essere embedded con gli americani”.

Ma la base in cui ti trovi è sicura? Ti senti in pericolo? Hai paura?

“In base si vive pensando che possa succedere qualcosa da un momento all’altro. E’ super protetta, ma se sganciano una bomba dall’alto c’é poco da fare. Fanno danni… Per quanto mi riguarda, non ho paura altrimenti non sarei qui, non faccio l’eroina ma credo che sia parte del mio lavoro. Se scelgo di andare in certe zone non posso pensare ai rischi che corro”.

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Stefano Vaccara

Stefano Vaccara

Sono nato e cresciuto in Sicilia, la chiave di tutto secondo un romantico tedesco. Infanzia rincorrendo un pallone dai Salesiani e liceo a Palermo, laurea a Siena, master a Boston. L'incontro col giornalismo avviene in America, per Il Giornale di Montanelli, poi tanti anni ad America Oggi e il mio weekly USItalia. Vivo a New York con la mia famiglia americana e dal Palazzo di Vetro ho raccontato l’ONU per Radio Radicale. Amo insegnare: prima downtown, alla New School, ora nel Bronx, al Lehman College della CUNY. Alle verità comode non ci credo e così ho scritto Carlos Marcello: The Man Behind the JFK Assassination (Enigma Books 2013 e 2015). Ho fondato e diretto (2013-gennaio 2023) La VOCE di New York, convinto che la chiave di tutto sia l’incontro fra "liberty & beauty" e con cui ho vinto il Premio Amerigo 2018. I’m Sicilian, born in Mazara del Vallo and raised in Palermo. I studied history in Siena and went to graduate school at Boston University. While in school, I started to write for Il Giornale di Montanelli. I then got a full-time job for America Oggi and moved to New York City. My dream was to create a totally independent Italian paper in New York to be read all over the world: I finally founded La VOCE di New York. In 2018 I won the "Amerigo Award". I’m a journalist, but I’m also a teacher. I love both. I cover the United Nations, and I correspond from the UN for Radio Radicale in Rome. I teach Media Studies and also a course on the Mafia, not Hollywood style but the real one, at Lehman College, CUNY. I don't believe in "comfortable truth" and so I wrote the book "Carlos Marcello: The Man Behind the JFK Assassination" (Enigma Books 2013 e 2015). I love cooking for my family. My favorite dish: spaghetti con le vongole.

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