Ci si abitua a tutto, anche ai viaggi spaziali? Dalla Luna a Marte, e forse ancora più avanti. Verso una meta, o semplicemente intorno alla piccola terra, per fare esperimenti scientifici, raccogliere informazioni, misurarsi. Il tempo non conta, possono essere giorni, mesi. Chissà se in un domani non troppo lontano saranno anche anni.
Quella dell’uomo lassù è sempre un’avventura. Costellata di notizie, e scoperte. E talvolta soddisfazioni per l’Italia, quando viene premiata la qualità dell’impegno. A bordo della stazione “orbitante” lanciata da una Soyuz russa, affollatissima di astronauti di vari paesi, Luca Parmitano è diventato il primo comandante italiano di una missione spaziale, terzo europeo.
Diverse nazioni che collaborano, i russi insieme ad americani ed europei: non ci sono muri nella ricerca scientifica, mentre qui litigi e meschinità abbondano. C’è un andirivieni di componenti, uno scambio di consegne, un passarsi il testimone di continuo. Difficile che lo stesso equipaggio rimanga immutato a lungo, chi va via, chi rimane, chi subentra, un tempo era impensabile questa facilità.
Tanti altri italiani prima di lui, Parmitano, nello spazio, dalla mitica Cristoforetti, a Nespoli, Guidoni, Malerba, ad altri. Una proiezione nel futuro, che sa muoversi dalla malconcia nostra terra, passi da gigante un po’ in tutte le direzioni. Nuove iniziative, come il recente accordo Virgin Galactic-Aeronautica Militare per un volo di ricerca human-tended.
Sempre con lo stesso desiderio misterioso: spingersi avanti. Si moltiplicano le imprese, rimane il fascino. Che ha attraversato secoli, intrecciandosi alle vicende politiche e religiose. L’uomo è sempre stato con il naso all’insù.
Antico quanto la storia stessa, lo studio degli astri tradisce lo stupore verso un mondo, quello celeste, percepito come tendente alla perfezione. Le sfere luminose lontane, le orbite lunghissime, gli orizzonti planetari sconfinati: una dimensione tanto sconosciuta quanto stupefacente, regolata da meccanismi precisi e sfuggenti. Forse perfetta, o quasi, proprio perché piena di misteri. Da ammirare prima di imparare a decifrarla. Da osservare con il timore che accompagna le cose grandi e inesplorate, minacciose e incombenti.
Uno scenario imparagonabile alla nostra terra, con le sue imperfezioni e malefatte, i confini scoperti, la sua piccolezza: entità infinitesimale di fronte all’immenso. Né l’impressione è mutata nel tempo, con il progredire delle conoscenze. Sappiamo molto di più: distinguiamo le stelle dai pianeti, le galassie dalle nebulose, dagli asteroidi. Proviamo a intrufolarci con i satelliti, cerchiamo di esplorare e capire il possibile.
Ma la lentezza si confronta con la velocità estrema, la brevità confligge con il tempo e lo spazio dell’universo. E’ uno scarto profondo tra possibilità e risultato, il mezzo e il fine, che va oltre ogni calcolo umano. Senza per questo però ispirare sfiducia e pessimismo, piuttosto attesa e sospensione emotiva.
L’uomo sperimenta una sete insaziabile di conoscenze, che lo ha motivato per secoli, da quando stelle e pianeti erano identificati con divinità arbitre del destino umano. Ma non rinuncia ad accompagnare quel bisogno scientifico con la meraviglia dei gesti e degli sguardi oltre sé stesso. Ogni nuova scoperta spaziale è espressione pure di altro: esplorare l’universo e le sue regole per capire meglio chi siamo e dove si stia andando tutti quanti.
“Che fai tu luna in ciel, dimmi che fai silenziosa luna?”: quella di Giacomo Leopardi non è solo ansia di informazioni su un pezzetto di universo che ci ruota attorno instancabile. Né canto malinconico, e pur sublime, di un grande poeta. È domanda che racconta l’inquietudine con cui l’uomo osserva ciò che non conosce, l’interrogarsi ammirato. Forse persino la percezione di un filo sottile che unisce lui così piccolo e fragile all’universo immensamente più grande: e che rappresenta, chissà, il senso ultimo di tutto.