Non si sa bene a che cosa si va incontro, ma si sa benissimo quello che si lascia; tanto basta. Con questa specie di epigramma, i ragionamenti sul nuovo governo presieduto da Giuseppe Conte (Conte 2, non Conte bis; non è mera lessicale differenza), finiscono qui.
La coalizione Movimento 5 Stelle, Partito Democratico e organizzazioni minori, certamente non rispecchia gli “umori” che serpeggiano nel paese. Ma neppure il precedente governo, un patto che si è voluto chiamare “contratto” (espressione mutuata dal diritto privato, senza valore alcun in politica), rispecchiava gli “umori” del paese di allora. Se ci si vuole davvero riferire agli “umori” bisogna riconoscere che circa metà del paese, da tempo diserta le urne; astensione frutto di una scelta maturata; è un qualunquismo “attivo”: un consapevole rifiuto di tutta la classe politica in quanto tale, si chiami Matteo Salvini o Luigi Di Maio, Matteo Renzi o Giorgia Meloni; nessuno di loro è titolato a parlare (come pure spesso fanno), a nome degli italiani: dovrebbero sempre ricordare che c’è una metà di elettori che li rifiuta in blocco. Ognuno di loro rappresenta. Lo stesso Renzi, che si vanta di aver portato, prima di una lunga serie di rovinose sconfitte, il PD al 40 per cento, dovrebbe aggiungere: il 40 per cento dei votanti, che a loro volta erano il 40 per cento degli elettori.
E’ l’indispensabile premessa per capire realmente quello che accade, e non limitarsi alla quotidiana fuffa di specialisti del nulla e dicitori del niente.
Altra indispensabile premessa: le maggioranze non si formano nelle piazze o nelle urne; si formano in Parlamento; gli elettori scelgono deputati e senatori; ma sono loro, una volta eletti, che decidono come e quali maggioranze formare per il Governo. Tutti i presidenti del Consiglio, della prima, seconda o terza repubblica che dir si voglia, sono stati presidenti di coalizioni, e di scelte del “Palazzo”. Il presidente del Consiglio non viene scelto dal popolo. E’ il presidente della Repubblica che lo nomina. E le maggioranze non sono quelle che escono dalle urne, ma quelle che si formano in Parlamento, sempre risultato di compromessi e concessioni (o se si vuole: “spartizioni”).
Per quel che riguarda il Conte due: la sua maggioranza non è meno “scandalosa” di quella del Conte uno; “solo” diversa. M5S e PD fino a ieri se le sono suonate di santa ragione, esattamente come, prima di redigere il “contratto” hanno fatto Lega e M5S. In politica come in amore tutto è lecito. Vale la frase attribuita a Cosimo de’ Medici: “Gli stati non si governano coi pater noster”; buona in ogni tempo e latitudine. Meno prosaico Nicolò Machiavelli, cancelliere della Repubblica fiorentina: col suo “De principatibus” spiega con brutale chiarezza che la scienza politica è dire come stanno le cose, e non come si vorrebbe che andassero.
La politica, la gestione dello stato, insegna sempre Machiavelli, si svincola dalla morale, ha un’etica sua. La capacità del politico si misura nel saper usare le occasioni, approfittare del corso degli eventi naturali e storici, prevederli ed assecondarli, e trarne vantaggio. In questo sta la fortuna del politico, ed la sua più grande virtù: espressione che, osserva ancora Machiavelli, non ha nulla a che fare con la moralità.
Il “gioco” può non piacere; ma queste sono le regole, se al “gioco” si vuole partecipare. In ogni paese, in ogni tempo. Chi lo nega o è ipocrita, o è sprovveduto; la politica non è per lui. Non ha torto l’ex ministro Rino Formica quando crudamente osserva: “l’attività politica è sangue e merda”. Poi, certo: ha una sua nobiltà, perfino una sua bellezza; può perseguire fini giusti e utili; ma quel “sangue e merda” sono imprescindibili.
Ora si può cercare di imbastire qualche ragionamento sull’hic et nunc.
Quando si dice che la volontà e l’interesse che anima la nuova coalizione è legata alle “poltrone”, si dice cosa esatta, vera, e che tuttavia non va banalizzata. Certo che è questione di “poltrone”. Ma le idee, i valori, le idealità su cosa si poggiano, se non sulle gambe delle persone? E, anche, sulle poltrone? I grandi utopisti, i grandi “visionari” sono anche meticolosi e pragmatici concreti. Ed è giusto che sia così.
In Italia, grosso modo, ci sono tre poli: quello che un tempo si chiamava centro-destra, e che si è trasformato in destra-centro: la Lega di Salvini; i Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni; una Forza Italia ogni giorno più vampirizzata in quanto il suo leader Silvio Berlusconi non catalizza più fiducia, entusiasmo, consenso. Il secondo ruota attorno a una triade magmatica: Beppe Grillo, Davide Casaleggio, Luigi Di Maio. Infine il PD (anzi molti PD: tante, e litigiose, sono le anime sotto questa etichetta).
Venuto meno il “contratto” Di Maio-Salvini per un delirio di onnipotenza di quest’ultimo, c’erano solo tre possibilità: elezioni anticipate, con la probabile affermazione del cartello Salvini-Meloni (e guarnizione Berlusconi); la ricostituzione del governo Lega-M5S (questo sì, un Conte bis); un governo M5S-PD.
Tutte e tre le ipotesi, per una ragione o per l’altra, disastrose e deleterie. Ma per quanto ci si possa scervellare, non esiste una quarta alternativa. Delle tre, quella che vede impegnati M5S e PD, è la più digeribile; lo si dice consapevoli del fatto che una volta baciati i rospi (tali sono, sia il M5S che il PD), non è che si muteranno in principessa e principe. Sempre rospi resteranno.
Il calcolo è quello del danno minore; il futuro prossimo è un’incognita, ma il recente passato è una certezza. Il governo Lega-M5S è stato qualcosa di disastroso sotto ogni punto di vista: dalle relazioni internazionali all’economia, dal costume alla politica interna. In pochi mesi si sono inanellati una quantità di fallimenti ed errori che si pagheranno negli anni a venire. Per fortuna, forse, chissà, può essere, la catena pare essersi spezzata.

Le “poltrone”: per il M5S (che mostra tutti i suoi limiti, tutta la sua pericolosa carica demagogica), sono quelle dei deputati e dei senatori: da ridurre. Forse 300 senatori e 630 deputati sono troppi; ma il problema non è tanto il loro numero, quanto il fatto che non sono nella condizione di lavorare come dovrebbero. Il Parlamento, grazie al proliferare dei decreti legge, si è trasformato in un votificio di ratifica di decisioni prese altrove. Inoltre, ridurre il numero dei parlamentari comporta la ridefinizione delle circoscrizioni elettorali, cosa che non si improvvisa; ma soprattutto una ridefinizione delle competenze. Insomma, occorrerebbe porre mano a una riforma dello Stato in senso autenticamente federalista, modello statunitense o svizzero; o almeno tedesco. Senza queste parallele riforme, ridurre il numero dei parlamentari è un “rimedio” perfino peggiore del “male” che intenderebbe curare.
Ma ci sono anche altri calcoli, o considerazioni da fare. Andare a elezioni anticipate non significa solo un nuovo esecutivo a guida Salvini. Una Lega vincente significa la possibilità concreta di una Lega trionfante anche alle imminenti e successive elezioni in due regioni simbolo per il PD: Umbria e Emilia Romagna. Allora sì, per il PD sarebbero guai molto seri. Una sconfitta del PD in Emilia Romagna potrebbe equivalere a una morte stessa del partito. Poi, oltre alle “poltrone” istituzionali nelle regioni, le “poltrone” del potere reale: sono circa cinquecento enti di nomina politica che vanno rinnovati; e tra questi alcuni che valgono più di un ministero: ENI, ENEL, Leonardo, ENAV… Consentire al solo Salvini di sistemare persone sue è un qualcosa che equivale a un suicidio per tutti gli altri. C’è infine, la “poltrona” presidenziale. In un altro Parlamento, il presidente della Repubblica dopo Sergio Mattarella lo sceglierebbe sempre, e solo, Salvini.
Questa è la posta vera, al di là di tutte le chiacchiere e i discorsi che capita di sentire e che si fanno. Queste le “riflessioni” che hanno “consigliato” Nicola Zingaretti e il PD a ingoiare (o baciare) tutti i rospi che si sono presentati sul loro cammino. Quanto al M5S sanno perfettamente che dalle urne sarebbero usciti con le ossa rotte; e Luigi Di Maio sa perfettamente che sarebbe tornato a fare il “bibitaro”, mestiere che esercitava prima di approdare in Parlamento.
Non si capisce bene il senso delle ultime mosse di Salvini: perché abbia aperto la crisi a ferragosto, e non nei giorni del suo trionfo dopo le elezioni per il Parlamento Europeo; perché abbia ritirato la fiducia, ma non abbia ritirato la sua delegazione e fatto dimettere i suoi ministri… Ma alla fine, dove sta scritto che Salvini è persona intelligente? Forse gli si è dato troppo credito. Forse, preda di un delirio di onnipotenza come il pifferaio andato a suonare, alla fine è stato suonato. Certamente non ha fatto sufficientemente i conti con politici di vecchia scuola democristiana come Mattarella, Romano Prodi, Dario Franceschini, Matteo Renzi, capaci di vendette e perfidie inimmaginabili; non ha fatto i conti con Zingaretti, vecchia scuola PCI, non togliattiana, ma berlingueriana sì. Forse… tanti innumerevoli “forse” si possono accampare, per spiegare gli errori di Salvini. Ma servirebbe, al punto in cui siamo?
Certo, la situazione è molto fluida: il PD è ancora un magma: il partito in mano a Zingaretti, i gruppi parlamentari a Renzi. Quest’ultimo è consapevole che se ora abbandona il partito, è condannato a formare un partiticchio irrilevante numericamente e politicamente; anche lui, come Zingaretti, hanno bisogno di tempo, per consolidarsi. Da domani i due lavoreranno anche per conquistare postazioni “interne”. Intanto Conte, da “avvocato del popolo” è diventato leader di fatto del M5S, e comunque la si metta, farà ombra a Di Maio, le cui quotazioni sono in notevole ribasso. Il M5S non è più un monolite, una falange. Cominceranno a regolare anche loro i conti “interni”…
Molte le debolezze, chissà che proprio da queste possa nascere una forza; è una scommessa, rischiosissima. Preferibile al micidiale mar dei Sargassi che ci si è lasciati alle spalle. Non c’è da scomodare Mussolini, evocare un nuovo fascismo: è una sciocchezza; ma certo Salvini incarna a tutto tondo i caratteri di una democrazia illiberale, che fa strame di regole e ruoli istituzionali.
Quello che accadrà lo si vedrà. Per si può solo dire che il vero eroe è il pompiere che si fa carico dell’incendio e prova a spegnerlo, non il piromane che lo ha acceso senza forse neppure rendersi conto delle conseguenze. In subordine, lo si annota con amarezza, impagabile lo spettacolo in corso del cambio di giacche; e di come si stiano studiano i nuovi accostamenti di colore…