
C’è un legame tra l’eccesso della parola e la comunicazione del vuoto, tra l’espansione illimitata del parlato e la sua evaporazione nella banalità. È qualcosa che riguarda il mondo intero, coperto dalla rete immensa della comunicazione, da un eccesso di messaggi, di parole e di immagini che ci vengono incontro da tutte le parti, che sollecitano contatti molteplici, simultanei, convergenti, in un infittirsi e sovrapporsi che allontana sempre di più la possibilità dell’ascolto, dello scambio, della partecipazione, della riflessione. Questo eccesso invade i nostri occhi e le nostre menti. Un “eccesso di comunicazione” che ha il suo corrispettivo culturale in quello della produzione e del consumo, dell’assurdità di uno sviluppo economico che concepisce se stesso come indefinito, rivolto ad una crescita perpetua: ogni intoppo di questa dà luogo a situazioni pericolose, a crisi, a disastri, crolli di ogni genere. È un’economia che sta portando il mondo alla rovina, che produce scarti e rifiuti sempre più invadenti e che sta dando fondo a tutte le risorse naturali, anche a quelle più immediatamente necessarie alla sopravvivenza.
“La nostra casa sta bruciando”. Sono le realistiche parole dell’attivista svedese Greta Thunberg, che arriva in queste ore a New York dopo un viaggio transatlantico in barca a vela e il cui esempio ha dato una scossa alla terra, ispirando e sollecitando migliaia di giovani di tutto il mondo a chiedere ai governi un immediato cambiamento delle politiche energetiche e ambientali, prima che il riscaldamento globale comprometta la sopravvivenza umana sulla terra. Perché mentre i governi discutono, senza agire, la foresta amazzonica, in Sud America, sta bruciando a un ritmo senza precedenti, il fumo nero degli incendi diffusi trasforma il giorno in notte a San Paolo, in Brasile, e Jair Bolsonaro, eletto presidente dello stato sudamericano per i prossimi 4 anni, durante un’intervista in campagna elettorale, ha dichiarato che non vede nulla di male nello sfruttamento della foresta amazzonica a fini economici.

In poche parole, nessun problema a deforestare, se questo fa bene all’economia del paese. Dovremmo essere consapevoli, invece, che non tutto può essere fatto in nome della crescita economica. L’Amazzonia è conosciuta come il “polmone del mondo” e contiene la più grande biodiversità per una foresta tropicale. Questa “sola” regione ospita circa 2,5 milioni di specie di insetti, decine di migliaia di piante e circa 2.000 uccelli e mammiferi; nel solo Brasile vi è una media tra 96.000 e 128.000 specie di invertebrati e un chilometro quadrato della foresta pluviale amazzonica può contenere circa 90.000 tonnellate di piante vive. Oltre alla minaccia a questa biodiversità derivante dallo sfruttamento, occorre considerare che le emissioni di carbonio dovute agli incendi possono contribuire in modo decisivo al riscaldamento globale. Gli studi indicano, infatti, che l’insostenibile deforestazione può portare a una riduzione delle precipitazioni e, quindi, a un aumento della temperatura nella regione e, di conseguenza, nel mondo.

L’orizzonte economico e sociale in cui prospera questa distruttiva “cultura” diffusa, che ha invaso anche il nostro paese, sta sempre più rivelando la sua insostenibilità e come sia sempre più urgente fermare l’espansione dello spreco delle risorse, il circolo perverso della produzione e della dilapidazione che crea una miscela distruttiva, alimentando conflitti etnici e religiosi, producendo alterazioni climatiche irreversibili, minacciando la stessa sopravvivenza dell’umanità.

In questo periferico crocevia del mondo che è la Sicilia, da dove scrivo, in un momento così lacerato, difficile, confuso come quello che stiamo vivendo, il mare è diventato una via aperta da cui arrivano i detriti del mondo, gli echi persistenti degli orrori e delle guerre che agitano il pianeta e che allontanano quelle speranze di luce, di pace e conciliazione che si sono affacciate nelle utopie di una storia lontana e vicina al tempo stesso. Oggi, infatti, il pensiero corre ai profughi che, come i Troiani dell’Eneide di Virgilio, cercano di varcare il canale di Sicilia per raggiungere (come allora) l’Italia, fuggendo da morte e distruzione, regimi autoritari e leggi draconiane; e come i Troiani sono vittime dei naufragi. Ci sono innumerevoli dispersi nel mare virgiliano, troppi cadaveri che fluttuano a mezz’acqua. I versi del grande poeta sono diventati cronaca. <<V’è un luogo…terra antica, potente di armi e di campi felici; l’ebbero gli uomini Enotri; adesso è fama che i posteri abbian chiamato quel popolo “Italia” dal nome di un capo. Qui facevamo rotta.>>. Centinaia di disperati tentano quotidianamente di varcare lo stretto braccio di mare che potrebbe finalmente allontanarli da terre in cui non si è persone, che hanno subìto e continuano a subire restrizioni fisiche, materiali e politiche troppo grandi da oltrepassare e spesso troppo impensabili da immaginare.
Lattanzio, nel III secolo d.C., aveva scritto:
Il principale vincolo che unisce gli uomini fra loro è l’umanità.
Prima di lui Seneca assimila l’umanità a un unico e medesimo corpo, ossia a un organismo formato da parti che inevitabilmente sono chiamate a collaborare fra loro; un corpo indirizzato a uno stesso fine, governato da sentimenti socievoli…
come un arco fatto di pietre, che sta su perché esse si sostengono l’una con l’altra, altrimenti crollerebbe.
E anche Diogene di Enoanda, nel II secolo d.C., scrisse:
Se si guarda all’intero complesso di questo mondo non c’è che una sola patria per tutti, la terra intera, e il mondo è l’unica casa.
Per i Greci, philánthropos è, del resto, colui che riconosce l’uomo come appartenente al suo stesso gruppo sociale e con l’uomo intende stabilire le stesse relazioni “strette” che intrattiene con sua moglie, i suoi figli, o l’ospite. Un equivalente latino per la philanthropía greca è la parola humanitas che significa mitezza, benevolenza, civiltà, disponibilità nei confronti degli altri. La stessa nozione di “uomo” equivale quindi a “mitezza, civiltà”, nella presupposizione che l’uomo possa dirsi veramente tale solo quando applica comportamenti ispirati a princìpi di mitezza e generosità verso i suoi simili.

Nato a Isnello nel 1987, Scalzo è un prolifico e appassionato streetphotographer autodidatta, ma con lo sguardo rivolto a grandi maestri come Scianna, Battaglia, Cartier-Bresson ed Erwitt, cattura l’energia dei soggetti, comunicando e stabilendo un contatto, veloce ma personale, con le persone intorno a lui. La sua fotografia riesce così a far capire il mondo e la vita.
Nella nostra particolare situazione la confusione di linguaggio che si è creata è estrema: chi dice di volersi ispirare ai principi liberali propone invece quotidianamente il volto di un populismo autoritario e immoralistico, mentre coloro che sono ostili all’individualismo etico revocano addirittura il principio di libertà di coscienza, ma sono gli stessi che battono e ribattono fino alla nausea sulla dignità della persona. Una nuova “stirpe barbarica” intanto guadagna consensi sempre più vasti calpestando gli elementi di ogni civiltà giuridica, confondendo il suolo pubblico o le pubbliche scuole con i propri recinti tribali (“padroni a casa nostra”). E poi c’è la massa di coloro che per libertà intendono il permesso autoconferito e sostenuto a forza di mafiosità, corruzione, impunità di dilapidare pubbliche risorse a vantaggio privato.
E allora affinchè le democrazie non solo progrediscano ma restino semplicemente in piedi, è necessario il raggiungimento dell’autonomia morale da parte dei più, possibilmente di tutti. Si diventa moralmente adulti emergendo da una comunità di vita. Uno viene al mondo nel milieu della sua famiglia, appartiene a un comune e magari a una parrocchia, nasce italiano ecc. prima di diventare la persona che diventerà; ma alla fine si diventa moralmente adulti prendendo posizione. L’autonomia morale è dunque la capacità di avallare o respingere, quale che esso sia, lo stile di vita, il modo di sentire, la cultura o la religione in cui si nasce, di farlo o non farlo proprio. Al fondo sta dunque la relazione della persona alla verità e non c’è relazione alla verità fuori dall’esercizio della libertà, non c’è altra via che nel “rinnovamento”: ne va di noi stessi, delle persone che vogliamo essere.
Oggi anche la politica deve tornare a essere affare di chiunque voglia essere persona moralmente autonoma e non serva, ma quello che il nostro presente ci insegna è che delle personalità morali una comunità può fare a meno, che con la banalità del male cresce la banalità della chiacchiera quotidiana.

La fondazione delle civiltà sulla coscienza e ragionevolezza degli individui liberi e responsabili è cosa fragilissima, ma urgente e necessaria. È necessaria una cultura che non dia luogo a esitazioni, dubbi, che non ceda alle forme del degrado quotidiano, all’aggressiva necessità dell’esibizione, allo sfaldarsi degli equilibri, alla volgarità fatua e rissosa, in una prospettiva universalistica difesa contro tutte le aspirazioni a chiudersi in realtà locali o marginali, in chiusi modelli etnici, sessuali, religiosi. Insieme ad una radicale ecologia dell’ambiente fisico, abbiamo sempre più bisogno di un’ecologia della comunicazione, che agisca come ecologia delle menti, che le liberi dagli scarti infiniti che le tengono sotto assedio. L’energia, la passione, la responsabilità e la ricerca dell’essenziale, sono la sola risposta all’eccesso, alle lacerazioni del presente, ai limiti e alle derive del mondo.
È urgente una cultura che renda conto del mondo, di questo mondo così intricato, così minaccioso, così in pericolo. Una cultura della responsabilità, che si confronti con la responsabilità che si pone ad ogni essere vivente per la sopravvivenza del mondo e del futuro, per il destino del pianeta e della vita di coloro che verranno, a cui va lasciato un ambiente vivibile e, se possibile, felice, una cultura respirabile, che dia un senso alle loro vite e che faccia riconoscere un legame tra noi, tutto ciò che abbiamo alle spalle, tutto ciò che ci attende.