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Da quali “intoccabili” furono violentate, torturate e uccise le tre “Ninas de Alcàsser”?

A distanza di oltre 25 anni dal brutale delitto di tre amiche adolescenti di un piccolo paese della Spagna, la verità che furono solo due balordi non regge più

Paola OrricobyPaola Orrico
Time: 10 mins read

Il caso di Alcàsser è recentemente tornato di pubblico interesse con un docu-film su Netflix; nonostante una condanna per triplice omicidio – comminata a due balordi locali – sono troppe ancora le perplessità e le incognite su questo brutale delitto.

Il più cruento della cronaca nera spagnola di tutti i tempi.

E’ una vicenda che personalmente conosco e “seguo” da molti anni. Nel 1992 ero una giovane ragazza ma avevo una sorella dell’età di Desi, Miriam e Toni. E’ una di quelle storie che mi è rimasta dentro – forse perché sono intimamente convinta che la parola “fine” debba essere ancora scritta. C’è una Verità – sulle sorti delle ninas –  che ancora cerca la via di casa.

Questa storia inizia nel 1992. Siamo in Spagna – precisamente a Valencia; ancora più precisamente ad Alcàsser – una cittadina di neppure 8.000 anime.

E’ il tredici novembre del 1992 – un venerdì – quando tre amiche adolescenti: Desirée Hernandez (detta Desi), Miriam Garcia ed Antonia Gomez (detta Toni) spariscono dalla cittadina e finiscono in un buco nero senza uscita.

Erano amiche inseparabili le tre, così diranno tutti. Nella adolescenza – lo sappiamo –  la parola “amicizia” significa tanto, quasi una sorellanza di cuore – di quelle che difficilmente si conservano  poi,  una volta raggiunta l’età adulta. Le tre ragazzine condividevano tutto: abiti, cd di musica, trucchi, confidenze – come fanno le amiche.

Il tredici novembre 1992 (data che diverrà tristemente famosa – poi – in tutta la Spagna) decisero di partecipare ad una festa studentesca che si sarebbe svolta in una discoteca famosa e frequentata da ragazzi – a Picassént – un paese  che dista solo pochi chilometri.

Il “Coolor“ ossia la discoteca dove si sarebbe svolta la festa – per le ragazze era una meta ambita ed agognata; chissà quanto avranno parlato della serata – assieme – scambiandosi consigli sull’outfit da indossare e sui trucchi da scambiarsi.

Ragazzine: sogni e sospiri. L’età più dolce.

Neppure a distanza di anni (ormai quasi ventisette) non ci si può soffermare sui loro volti acerbi – senza sprofondare in una tristezza senza appello.

Sì. Perché Desi, Miriam e Toni a quel  party  agognato – alla fine  –  non arriveranno  mai né  mai faranno ritorno agli affetti ed al calore delle loro case. Diverranno le prigioniere – senza uscita-  di un disegno malefico più grande di loro ed a tutt’oggi – a mio parere –  irrisolto.

Dal momento della loro scomparsa – il 13 novembre 1992 – alla data del loro ritrovamento o almeno di ciò che di loro di loro resterà, passeranno ben settantasei giorni. Una quantità di tempo infinita per i famigliari passata fra appelli disperati, volantini sparsi ovunque ed una spasmodica ricerca della verità. Settantasei giorni di angoscia, di incertezze, dubbi, persino insinuazioni sulla moralità delle ragazze e ripetuti episodi di sciacallaggio.

Questi sono gli effetti collaterali e frequenti in moltissimi fatti di cronaca nera: incalcolabile il numero delle segnalazioni anonime, delle lettere farneticanti spedite da ogni parte della Spagna;  quelle che – in sintesi  –  segnalavano la presenza delle ragazze in più di un posto  –  come delle telefonate di mitomani o sadici che fingevano di conoscere le sorti delle scomparse.

Quanto può essere meschino l’essere umano in frangenti come questo.

La “guardia civil”  (la polizia spagnola)  dal canto suo fece l’errore di non avviare subito una inchiesta sulla sparizione delle ragazze – scambiandola per un allontanamento volontario. A nulla servì dire loro che in realtà Desi, Miriam e Toni  non erano ragazze irrequiete e problematiche tanto da meditare una fuga. A nulla servì rassicurare loro circa il fatto che non si sarebbero mai allontanate da casa volontariamente – abituate come erano – a comunicare ai propri genitori ogni benché minimo ritardo.

Ci vollero ben due settimane prima che si iniziò a parlare di “scomparsa” non volontaria  ed ancora molti giorni a venire – prima che si cominciasse ad indagare più o meno seriamente. Molto probabilmente non sarebbe accaduto nulla di diverso –  certo è –  che ancora oggi  a distanza di quasi ventisette anni – ci stiamo domandando che cosa si sarebbe potuto fare di meglio –  all’epoca –  per scongiurare quel triste epilogo.

A questo punto scoppiò il caso. La cittadina di Alcàsser diventò  improvvisamente e tristemente famosa proprio a partire da quei giorni di novembre. I genitori delle ragazzine  cominciarono a voler  sensibilizzare l’opinione pubblica spagnola su quella sparizione avvalendosi anche dei media: giornali e tv, soprattutto il padre di Miriam.

Fernando Garcia cominciò a partecipare a varie trasmissioni televisive dedicate al caso – le stesse che  inaugurarono quella che passò  alla storia televisiva spagnola come la stagione del “reality dell’orrore”. Garcia temeva in realtà  che le ragazze venissero presto dimenticate e che il caso venisse semplicemente archiviato, come tanti altri in precedenza.

Le prime ricostruzioni del caso cominciarono ad evidenziare tutta una serie di testimonianze: cercando di ricostruire i loro ultimi spostamenti. Si seppe che le ragazze – quel maledetto 13 novembre del 1992 – si erano date appuntamento a casa di una amica, tal Ester che le avrebbe accompagnate alla festa – se non fosse allettata a causa di una influenza;  da lì poi si sarebbero incamminate sulla strada principale per trovare un passaggio in auto, tramite autostop.

Dalla casa dell’amica Ester uscirono approssimativamente attorno alle 20.30. Il viaggio in auto sarebbe stato breve per arrivare alla discoteca Coolor; sarebbe bastato trovare qualche automobilista “gentile e  dallo sguardo rassicurante”  che le portasse a destinazione. Così riferì Ester agli inquirenti: forse citando letteralmente una frase di una delle amiche.

La pratica dell’autostop era frequente fra gli adolescenti di Alcàsser ; “eppoi loro erano in tre –  non sarebbe potuto accadere nulla” (cit. di Ester)

Una testimone riferirà che dalla finestra della sua abitazione – quel 13 novembre –  vide un’auto bianca con due o tre persone all’interno far salire le tre ragazze – per poi ripartire a tutta velocità.

Se fosse un appuntamento con qualcuno di conosciuto o un passaggio trovato all’ultimo minuto – noi non lo sapremo mai. Sappiamo che quello fu l’ultimo momento in cui qualcuno le vide vive.

Dopo settantasei giorni di attesa e di speranze – rattoppate ogni giorno – arrivò la terribile scoperta.

Il ventisette gennaio del 1993 a venti chilometri da Alcàsser –   in una zona impervia e montuosa conosciuta come La Romana –  due apicultori scorsero fra gli arbusti un cumulo di terra da cui fuoriusciva un braccio. Desi, Miriam ed Antonia – detta Toni – si scoprirono  lì, in una fossa comune poco profonda. Unite da vive ed unite da morte –  piazzate l’ una accanto all’altra –  come fossero bambole rotte.

Sarà solo l’inizio dell’orrore. Quello che si trova più vivido – solitamente –  nei verbali di cronaca nera che nella cinematografia hollywoodiana.

Il resoconto della autopsia sui poveri resti – da lì a poco – restituì infatti  dati oggettivi e particolari cruenti.

Ecco cosa si scoprì.

Le tre adolescenti non furono solo uccise. Esse furono violentate, letteralmente torturate, martorizzate, picchiate, violate con non meglio precisati strumenti atti a ferire, lacerate, scarnificate, appese come animali da macello e – solo alla fine – vennero uccise.

Un calvario, un martirio scientificamente e ciclicamente perpetrato per ore fino ad arrivare all’epilogo (comune) di un colpo di pistola alla nuca.

Gli atti delle autopsie – meccanicamente elencati  – riportarono  alla luce i dettagli raccapriccianti di una mattanza lucida eseguita in modo che le tre adolescenti vivessero il più possibile.

Desirèe, Miriam ed Antonia sarebbero salite nell’auto sbagliata di due balordi locali: Antonio Anglès ed il suo sodale Miguel Ricart – secondo la ricostruzione fatta dalla guardia civil – e sarebbero state abusate ed uccise dai due. Entrambi verranno  imputati per questo crimine e giudicati colpevoli.

Anglès non verrà mai catturato e – solo da contumace –  verrà condannato per il triplice omicidio.

Miguel Ricart – dopo aver dato ben sei versioni dell’accaduto diverse in uno stato confusionale ed alterato – confessò  la sua partecipazione al triplice omicidio e per questo sarà  condannato a 170 anni di carcere – commutati poi a 20 – grazie all’abrogazione della cosiddetta “Dottrina Parot”.

Ricart ha scontato tutta la pena ed è uscito recentemente dal carcere, facendo perdere le sue tracce definitivamente.

Fine della storia, penserete voi. Nulla di più sbagliato.

Non lo ha mai pensato il padre di Miriam – Fernando che con l’aiuto del criminologo Juan Ignacio Blanco – scomparso i primi giorni di luglio a causa di una malattia incurabile – ha continuato in tutti questi anni a combattere per riaprire il caso delle tre “Ninas de Alcàsser”. Ci sono ancora troppe ombre.

Ciò che è lapalissiana  –  in  questa vicenda –  è una anomala, frettolosa e  rocambolesca ricerca di un colpevole.

Anglès e Ricart erano effettivamente  perfetti per il ruolo:  delinquenti dediti a rapine e furti per procacciarsi le pesetas per la droga, entrambi già conosciuti alle forze dell’ordine ed al sistema giudiziario spagnolo.

Piccoli pesci abbordabili  in un oceano di squali.

Ai due si arrivò con un “fortunoso” ritrovamento: una tessera sanitaria spiegazzata e rinvenuta nei pressi del luogo del delitto – appartenente al fratello di Antonio Anglés, Eduardo.

Un colpo di fortuna o un ritrovamento pilotato per incastrare i pesci piccoli? Se fossimo malfidati, penseremmo ad un depistaggio.

Interrogato Eduardo (il fratello) oltre a fornire un alibi di ferro – dichiarò  inoltre che della sua tessera sanitaria era solito servirsi  Antonio, per recuperare dei potenti antidolorifici oppiacei (Antonio era tossicodipendente).

Eduardo altresì  specificò anche che Antonio si era lamentato con lui dello smarrimento della tessera,  settimane  prima del fattaccio di Alcàsser.

Particolare che non è stato menzionato successivamente nella trascrizione delle testimonianze.

Perché?

Altri dati inquietanti: sui corpi delle ragazze sono stati rinvenuti ben dodici dna appartenenti a persone diverse e non solo il dna dei colpevoli ufficiali o meglio – di quelli che la guardia civil individuò come i soli responsabili.

Una immagine dal documentario di Netfix sul caso delle “Ninas di Alcasser”

Perché non proseguire nelle indagini?

Lo stesso Ricart – durante un interrogatorio – ammise di essere solo una “cabeza de turco”  – ossia solo un capro espiatorio di qualcosa di più grande, su cui evidentemente non si è mai indagato.

C’è chi cominciò a parlare di personaggi potenti ed altolocati coinvolti in questa terribile vicenda – chi parlò di video snuff commissionati da persone danarose – chi parlò di un branco di giovani depravati e violenti e non di due singoli balordi.

Il padre di Miriam (Fernando Garcia) assieme al criminologo Juan Ignacio Blanco svolsero per anni indagini parallele sul caso – nonostante la condanna comminata a Ricart; coadiuvati anche da un ingente quantitativo di denaro – sotto forma di offerte – che arrivò loro da ogni parte della Spagna.

Nacque anche una Fondazione in memoria delle tre ragazzine spagnole.

A distanza di anni – molti – da quella efferata mattanza ci sono ancora tanti lati oscuri su cui varrebbe la pena far luce. Ancora oggi  c’è chi lo continua a considerare un “cold case” nonostante  le due sentenze di  condanna.

Troppi sono gli elementi oggettivi su cui non si è indagato affatto. Sono stati semplicemente omessi e taciuti e considerati come  insignificanti.

Le tre ragazze furono brutalizzate in modo animalesco – ciò si evince dalle tre autopsie. Violentate e torturate per ore ed ore.

Uno dei coroner che si è occupato  delle autopsie affermerà una cosa agghiacciante: ossia che in tutta la sua carriera non avesse  mai visto una simile crudeltà su di un essere umano: segni di corde, tagli, scorticamento, ecchimosi su ogni parte del corpo, lacerazioni vaginali ed anali prodotte da atti cruenti e bestiali.

Ma c’è di più. Dalle autopsie emersero degli elementi che – forse – avrebbero potuto rappresentare la chiave di volta per la soluzione del caso.

Proviamo a riunire noi i pezzi del puzzle.

A livello della terza e quarta vertebra lombare di una delle tre ragazze – fu ritrovato un monile particolare: una “Cruz de Caravaca”. Come poteva esserci finita  lì? Apparteneva ad una delle tre ragazzine? Che cosa rappresenta?

Addentriamoci nello specifico.

Il crocefisso Caravaca è considerato un potentissimo talismano contro i malefici ed uno degli strumenti più efficaci per proteggersi dal demonio. Questo simbolo ha radici antichissime ed è sempre stato utilizzato come schermo protettivo persino in occasione di esorcismi, per liberare i posseduti dagli influssi del maligno. Famosa è  la Lode alla Cruz de Caravaca recitata in spagnolo. Un simbolo religioso della Fede Cristiana che spesso – da tradizione – viene utilizzato anche nella ritualistica blasfema.

Perché una delle tre ragazze lo aveva all’interno del proprio corpo martoriato? Quando e come è stato introdotto?

Di certo per via anale o vaginale.

A ciò giunse anche il coroner, ma perché compiere un atto così osceno?

Una spiegazione potrebbe essere data dallo svolgimento di un rituale “ab contrario” (al contrario), in spregio al momento dell’eucaristia nella messa cattolica. Ricordiamo che nelle messe nere accade sempre il contrario  di ciò che è previsto nella liturgia cattolica.

Il demonio è il capoverso del bene, l’immondo che mente, che capovolge la Verità del bene.

Il monile introdotto nel corpo potrebbe indicare proprio qualcosa di diverso da un semplice omicidio e qui si tratterebbe di tre omicidi ed – il 3 – è il  numero che indica la Sacra Trinità.

Quelli delle ragazze di  Alcàsser potrebbero essere bensì tre omicidi rituali compiuti in onore di Satana e con la partecipazione attiva o passiva di altre persone:  ciò spiegherebbe la presenza di capelli e peli pubici estranei ai due balordi condannati.

Altro elemento interessante su cui non si è saputo (o voluto) indagare è un piccolo disegno scavato sulla pelle di una delle tre  ragazzine: una “insignificante” – per gli inquirenti – incisione fatta con un oggetto acuminato, molto probabilmente un bisturi.

L’ incisione sul derma reca l’immagine di “Othala” o “Othal”.

Nel linguaggio runico essa rappresenta la sacralità di qualcosa di chiuso, oscuro: un tempio, un confine invalicabile ma essa rappresenta anche qualcosa che si sta per trasformare; la conclusione di un ciclo vitale e terreno che – in via analogica – può rappresentare anche la morte.

Congetture, supposizioni dovute. Perché non analizzare anche questi elementi?

Perché nessuno degli inquirenti si è domandato cosa ci facessero tre sassi “estranei al contesto morfologico del luogo del ritrovamento” (cit) posizionati sui cadaveri delle ragazze?

Appurato il fatto che si trattasse di sassi “fluviali” e non montani – come quelli presenti – a La Romana (luogo di ritrovamento dei resti), perché nessuno è rimasto colpito dalla stranezza?

Essendo le pietre fluviali utilizzate nella ritualistica – forse – avrebbero potuto essere esaminate con maggior attenzione, soprattutto in virtù  del fatto che naturalmente non avrebbero potuto trovarsi lì.

Un altro dettaglio.

La stessa data della sparizione (e molto probabilmente della uccisione delle tre) è “significativa”: si trattava di un venerdì – precisamente il 13 – 11- 1992 ed è una data che a voler essere puntigliosi – reca combinazioni numeriche particolari al suo interno.

Prendiamo carta e penna.

1+3+1+1 = 6

99 = 66

La combinazione delle cifre dà 666 che è il numero della bestia – così come recita l’Apocalisse.

In sintesi.

E se questo orrendo ed efferato crimine fosse stato piuttosto commesso con la cooperazione e partecipazione di più soggetti altolocati o su loro commissione in occasione di un rituale demoniaco?

Ricordiamo che la cattolica Spagna ha – negli ultimi decenni – visto moltiplicare il numero delle sette sataniche soprattutto a Madrid, Barcellona e nella stessa Valencia.

Come mai si è preferito chiudere il caso in breve tempo – incriminando due balordi tossicomani  locali?

I pesci piccoli ed abbordabili in un oceano di squali, ripeto.

Quali erano le personalità eminenti ed autorevoli coinvolte in queste pratiche esoteriche?

Quali e quanti erano i casi di sparizione “volontaria” di ragazzini e bambini – archiviati in precedenza?

Quali appoggi e protezione hanno avuto durante tutti questi anni, certi personaggi?

Da sin. Miriam, Antonia e Desirè

Chi ha in realtà ucciso le tre “ninas de Alcàsser?

In attesa della Verità che forse un giorno arriverà per caso – come una luce che spicca nelle tenebre – volgo un pensiero di pace infinita a loro: Miriam, Desi e Toni, le tre amiche.

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Paola Orrico

Paola Orrico

Parlare di sé stessi è sempre molto difficile: si rischia di scadere nel retorico o di minimizzare - facendo uno sfoggio di modestia. Citerei piuttosto una frase di Gerry Spence: “Il modo in cui le persone si muovono è la loro autobiografia in movimento.” - perché credo fermamente che siano le azioni a qualificare meglio le persone. Ho fatto tante cose, continuo a farle; sono sempre in movimento perché - nonostante la mia proverbiale pigrizia - ho una mente rumorosa. Sono una giornalista che ha studiato giurisprudenza ed una giornalista che è diventata insegnante di Italiano per stranieri. Amo moltissimo tutto ciò che significa “introspezione”: leggere, scrivere, insegnare. Possiedo una tossicodipendenza da gatti - da quando sono nata e sono attratta da tutto ciò che è ignoto ed oscuro. Forse sono un po’ Wicca inside. Sono alla perenne ricerca della Verità - perché sono una che scava finché non trova qualcosa. Sono essenzialmente una persona introversa: alle mie stranezze però ho imparato a voler bene.

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