Dal Consiglio d’Europa è arrivato un secco NO alla proposta del governo italiano di sbarcare i migranti a bordo della Sea Watch in Libia. Il commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Dunja Mijatovic, ha invitato i paesi dell’UE a non collaborare con la Guardia costiera libica: “Gli Stati membri devono urgentemente riesaminare le loro attività e pratiche di cooperazione con la guardia costiera libica (…) e identificare chi comporta, direttamente o indirettamente, il rimpatrio delle persone intercettate in mare in Libia o altre violazioni dei diritti umani”, ha scritto in un rapporto pubblicato martedì.
Fin qui niente di nuovo: che il diritto marittimo internazionale proibisse di lasciare le persone soccorse in mare in porti “non sicuri” non è una novità.
“Cosa fare” con i naufraghi soccorsi in mare non è una novità. Diversa la questione “cosa fare” con i migranti. Argomento spinoso che gli accordi finora sottoscritti dai vari paesi dell’UE (come l’accordo di Dublino) non sono stati in grado di risolvere: la ridistribuzione dei “rifugiati” (non i migranti) non è stata rispettata da tutti i paesi secondo le procedure concordate e i numerosi incontri che si sono tenuti su questo argomento (a molti dei quali – sei su sette – il vicepremier italiano Matteo Salvini ha preferito non essere presente personalmente) non sono bastati a trovare una soluzione funzionale e definitiva.
Anzi il modo di gestire il problema che è costato a molti paesi UE (Italia inclusa, ovviamente) una denuncia alla Corte penale internazionale (Cpi). L’accusa, articolata in un documento di 245 pagine, attacca senza mezzi termini le politiche migratorie dell’Unione affermando che “si sarebbe inteso sacrificare la vita dei migranti in difficoltà in mare, con l’unico obiettivo di dissuadere gli altri in situazioni analoghe a cercare salvezza in Europa”.
Parole pesanti. Ma che potrebbero diventare ancora più pesanti se i membri della Corte penale internazionale decidessero di considerare gli ultimi numeri. Quali? Quelli dei morti nel tentativo di attraversare il Mediterraneo per entrare in Europa dalla Spagna, dalla Grecia o dall’Italia.
Se è vero che gli sbarchi in Italia sono diminuiti sensibilmente, dall’altro la percentuale di morti tra quelli che hanno cercato di raggiungere l’Europa è cresciuta esponenzialmente. Secondo i dati forniti dall’UNHCR, nel 2019, sarebbero almeno 539 le persone che hanno perso la vita cercando di attraversare il Mar Mediterraneo. Dato simile quello diffuso dall’IOM (che parla di 543 morti). La percentuale di decessi tra le persone che cercano di entrare in Europa attraverso il Mar Mediterraneo che è superiore al 7,2%. Eppure solo un anno fa, nel 2018, i i morti furono 2.277 su 141.472 arrivi, ovvero poco più dell’1,6%. Lo stesso nel 2017, quando i morti sono stati 3.139 a fronte di 185.139 arrivi. Come dire che, negli ultimi mesi, cercare di raggiungere l’Europa attraverso il Mediterraneo è diventato decisamente più rischioso per i migranti (senza tenere conto di quelli rispediti in Libia e sul cui futuro sono in molti ad avere dubbi).
In questo mare di numeri nessuno ha fatto attenzione ad un altro dato. Sempre in base a agli accordi di Dublino, un richiedente asilo dovrebbe inoltrare la propria domanda di protezione internazionale nel primo paese di arrivo. Ragion per cui, da mesi la Germania e altri paesi europei, invece di mantenere gli accordi di redistribuzione dei migranti oggetto di aspri dibattiti durante gli incontri europei (come quelli ai quali il Ministro Salvini non era presente), rispediscono i richiedenti asilo in Italia. Da gennaio a maggio 2019, solo la Germania avrebbe rimandato indietro 710 “dublinanti”, come sono stati definiti. Lo stesso sarebbe avvenuto lo scorso anno: altri 2.848 migranti rispediti senza tante chiacchiere nel Bel Paese. A loro si sono aggiungono i 1.500 provenienti dalla Francia, 1.103 dall’Austria, 728 dalla Svizzera e 190 dai Paesi Bassi. Migranti “extracomuntari” entrati in Italia nell’ultimo periodo ma non provenienti da qualche paese africano o dal medio Oriente ma da paesi …. comunitari.
La verità è che, ogni volta che si parla di migranti, tutti usano i numeri che li riguardano per “fare politica”. Senza pensare che, dietro questi numeri, non ci sono cose, ma persone, uomini, donne e bambini che hanno dovuto lasciare il proprio paese, la propria casa perché non era più possibile vivere lì (le cause sono arcinote: desertificazione, povertà estrema, sfruttamento, landgrabbing e altri). Un problema che non ha dimensioni “italiane”, come vorrebbe far credere qualcuno, nè europee come fingono di non vedere a Bruxelles e a Strasburgo, ma globali: nel mondo i migranti sono 258 milioni (altro che le poche decine oggetto di dispute e liti). Tanti, tantissimi, un numero infinitamente maggiore di quelli di cui parlano sia il governo italiano che le Commissioni dell’UE o, in America, Trump. Un numero in costante crescita: basti pensare che, secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel 2000 erano 173milioni, oggi sono 85 milioni di più. Di questi solo 25,4 milioni hanno lo status di rifugiati e 68,5 milioni sono stati allontanati a forza dal proprio territorio. La stragrande maggioranza dei migranti, ovvero quasi 200 milioni, ha lasciato la propria casa per un solo motivo: trovare un posto dove lavorare, studiare, in una parola, vivere. Proprio come quelli sull’imbarcazione ferma al largo delle coste italiane oggetto delle ultime polemiche in questi giorni. Poche decine di persone oggetto delle solite beghe e polemiche sterili (“non hanno i documenti, ma hanno il cellulare”, “non sembrano poi così denutriti” e molte altre) spesso strumentalizzate a fini propagandistici. Da una parte e dall’altra.
Dimenticando che le misure restrittive adottate finora (con o senza la presenza di questo o quel ministro) non sono servite a nulla. Se non a far morire un numero di persone sempre maggiore.