Nella nota Lettera di ieri, il Papa Emerito Benedetto XVI, discutendo la questione del “problema inaudito” (pedofilia ecclesiastica, in relazione al suo collasso morale), ha scritto che una delle sue cause è stato “il così detto garantismo. Significa che dovevano essere garantiti soprattutto i diritti degli accusati, e questo fino al punto da escludere di fatto una condanna”.
Proposizione che non stupisce un orecchio italiano, risuonando fin troppo familiare.
Piuttosto, è interessante la sua spiegazione: “Un diritto canonico costruito nel modo giusto deve dunque contenere una duplice garanzia: protezione giuridica dell’accusato e protezione giuridica del bene che è in gioco”.
Qual è “il bene in gioco”? La Fede.
Ineccepibile. Sembra. E così prosegue: “Nella coscienza giuridica comune la fede non sembra più avere il rango di un bene da proteggere.”
Eccoci. L’insidia, come sempre con la Dottrina, di qualsivoglia specie, è nelle parole.
Se da un lato c’è l’accusato e, dall’altro, un “Bene”, la dicotomia contiene già in sé la subordinazione dell’uno all’altra.
La degradazione del Bene/Fede, In Causa Fidei, viene a dipendere dall’espansione, ritenuta erronea, del diritto dell’accusato.
Ma non c’è una misura giusta, a ben vedere. Non ci può essere.
Perché l’errore, “di fatto”, si fa coincidere con il contenuto stesso di questo diritto: che non dovrebbe potersi spingere “fino al punto di escludere di fatto una condanna”.
Il diritto dell’accusato è tale, pertanto, solo se inidoneo, cioè, incapace, di “escludere di fatto una condanna”. È tale se nega sé stesso. Altrimenti, è “garantismo”.
Nel concetto liberale, che sappiamo antico Avversario della Chiesa, e di certe sue ambiziose imitazioni rosso-brune novecentesche, il “Bene”, al contrario, è l’accusato. L’Uomo, qui e ora. E sappiamo anche che, a dispetto di transitorie pacificazioni intellettuali, simile confronto fra il “Concetto Liberale” e “Il Concetto Illiberale”, è incalzato dall’incessante gorgoglìo delle passioni e dei sentimenti.
E l’agone giudiziario, infatti, sul terreno liberale, è fra “Beni”: non fra un’entità cui non si riconosce la qualità del “bene”, e “un” bene.
Considerate in sè, però, queste parole potrebbero ancora essere ricondotte alla “regola cavouriana”: ognuno, libero a casa sua. E Benedetto XVI, indubbiamente, si occupa, e si preoccupa della sua “Vigna”.
Senonché, suo malgrado, questi suoi rilievi, tanto stentoreamente ostili all’idea stessa dell’ “accusato garantito”, e che, in fondo, potrebbero risultare rispettosamente “estranee” alle nostre cure secolari, finiscono con il reclamare il loro primato: un primato che si vorrebbe poter confinare allo spirituale, ma che, grazie all’erosione di un Pensiero Politico Dominante, ha svelato tutta la sua prepotente, centrale, rinvigorita “neotemporalità”.
Da “Bene/Fede” a “Bene giuridico”, le metamorfosi possono essere pronte, e inattese. E, in effetti, tali sono state.
Il “Bene giuridico”, cioè costituzionale (il Patrimonio, l’Integrità personale, la Pubblica Amministrazione, l’Ordine Pubblico, ecc), diventa Bene/Fede precisamente quando non si ammette che un’ipotetica sua violazione possa essere negata.
La condanna è l’unica “garanzia” di un Ordine Giusto. Noi, grazie alla lunga diseducazione della Repubblica di Tangentopoli, viviamo una tale condizione sociale e politica.
Micromega. “Giustizia&Libertà”. La Società del Cappio e delle Monetine. Il “valore endogeno” della Presunzione di non colpevolezza”. La “certezza della pena”. Il Ministro della Giustizia che, a suo capriccio, vilipende una sentenza di assoluzione, o una remissione in libertà dopo una custodia cautelare rivelatasi incerta e ingannevole, svelano così la loro torbida e infelicissima natura: il rinnovato fetore del “mondo” che millanta, e promette “l’ultramondo”.
Il punto è, che, messa mano ai marchingegni della “Giustizia Umana-Integrata”, dal Paradiso Promesso all’Inferno Realizzato, è sempre stato un attimo.