“Formigoni in galera” non è solo un’immagine di cruda efficacia, per introdurre una notizia. Acquisisce, mentre la osserviamo, e ne scandiamo il suono, un significato più vasto: che riassume ed incarna il “come siamo e dove siamo” di una comunità politica e sociale.
La ragione è presto detta: fino a pochi mesi fa, una condanna come questa avrebbe potuto essere eseguita nel domicilio della persona: a casa. Oggi, non più. Abbiamo a che fare con una legge, con una volontà politica. Così, “Formigoni in galera”, diventa quello che si chiama “un segno dei tempi”.
Le cronache riferiscono di una questione giuridico-processuale, sollevata dalla Difesa, e che mirerebbe a conseguire questo stesso risultato. Ma è di là da essere decisa. Da stamattina, “Formigoni è in galera”. Questo è il fatto: questo, “il segno”. Che viene tracciato, si accennava, da una nuova legge, nota col suo appellativo lageristico-tribunizio di “Spazzacorrotti”.
Il Deputato del M5S Stefano Buffagni, nonché Sottosegretario agli Affari Regionali, ha rivendicato il merito politico della “novità”: “Mi rallegra che le leggi fatte dai 5 Stelle non fanno più scappare i corrotti dal carcere“.
I “tempi”, dunque, sono questi. Nei quali il carcere, l’inflizione ad un uomo di una sofferenza legalmente costituita, mette allegria. Ad un componente del Governo della Repubblica.
Come sappiamo, “l’inno alla galera”, dove “nessuno va”, perché “manca la certezza della pena”, costituisce un fermento di cloaca di ormai risalente e meditata elaborazione, e di articolato sostegno.
Per meglio coglierne “il segno”, dunque, dobbiamo situare “il nostro tempo” rispetto ad un paradigma. Altrimenti, rischieremmo di cadere nel loop di una critica che non è una critica: ma una protesta istintiva, schietta, convinta e nondimeno, in fondo, politicamente e culturalmente sterile.
Ci soccorre un grande italiano. Cesare Beccaria. È lui il paradigma.
Non era un giurista: per nostra fortuna. Era un uomo. Beccaria spiega come e perché “la legge”, allora e ora col suo corteggio di esegesi ruffiane e immondi sacerdoti della ferocia, se ignora il cuore degli uomini, i loro “sentimenti indelebili”, non gode in sè di nessuna autorità.
O va resa vera, la Legge, perché umana, o va presa a calci; e con lei, quelli che mendace e inumana l’hanno voluta.
Il Cap. XV, ci avverte un altro grande italiano, Pietro Calamandrei, fattosi giurista nel magistero di quel grande uomo, è “il centro di tutto il discorso”. Il discorso sui delitti, il discorso sulle pene. Il discorso della civiltà “a petto” della barbarie.
Quel capitolo è intitolato “Dolcezza delle pene”. Dolcezza: quanto a dire, “moderazione”, “proporzione”, razionale assolvimento di uno scopo intellegibile, non brutale appagamento di una foia animalesca.
Scrive per farsi intendere, Beccaria: “la meno tormentosa sul corpo del reo”. La pena e il corpo: ecco i termini di una relazione lucida e morale. E, sia chiaro, qui si parla di pene, di tutte le pene che cadano sul “corpo”; non solo della tortura, che occupa il Cap. XII, o della pena di morte, alla quale si volgono le risolutive pagine del XVI, il più celebre, forse, fra quelli di “questo libretto”.
No. Beccaria situa la superiore necessità della pena giusta fra “i tormenti” e la morte per decreto: a significare che essa possiede una terribile natura, che nasce dai primi, e si specchia nella seconda. Con la pena sul corpo, toccandolo, confinandolo, comunque disponendone, siamo al limite dell’umano.
La pena presuppone il delitto. Come noi muoviamo dall’accertamento di responsabilità di Formigoni: consegnato alla comune cognizione da una sentenza definitiva.
E non solo lo presuppone, ma si spiega, si giustifica a partire dal delitto. Pertanto, il lusso, le giacche colorate, la sanità pubblica, lombarda e nazionale, non c’entrano. Questo è il delitto. Ma la pena? “Perché la pena ottenga il suo effetto, basta che il male della pena ecceda il bene che nasce dal delitto”.
Quale, qui, “il bene che nasce dal delitto”? Il profitto del reato, la indebita gestione amministrativa, la carriera politica. Non c’è più nulla di quello che c’era. Effetti ampiamente conseguibili con la detenzione nel domicilio. E, probabilmente, già con la pena-processo. Che mai si computa.
La “galera”, allora, è oltre: “Tutto il più, è dunque superfluo, e perciò, tirannico”. Tirannico.
Pertanto, oggi, in Italia, non ci sono legislatori “sensibili al rigore”, che “non fanno scappare i corrotti dal carcere”; ma solo una canea ciarlatana e livorosa.
Nei decenni e nei secoli, miasmi similari hanno fatto aleggiare su Beccaria la taccia di inattualità.
Non a caso, Calamandrei volle proporne un suo commento, scrivendolo dal dicembre 1943 al dicembre 1944, e precisando: “Dopo quasi due secoli, queste pagine, che fino a trent’anni fa si potevano leggere colla distaccata curiosità con cui si senton narrare remote costumanze di evi barbari, hanno ritrovato per noi un accento di vivente umanità, che ce le fa sentire come dettate dall’angoscia di un contemporaneo…Tutto è tornato vero ”.
Un deputato che chiude un suo intervento in Parlamento con turpe mimica patibolare (Giuseppe D’Ambrosio); un senatore che, pochi giorni dopo, lo ripete, elevandola a ghigno plastico rivolto alle opposizioni (Michele Giarrusso); un sottosegretario che sorride del sorriso di una iena; una Legge che annuncia di “spazzare” i condannati, implicandone la loro riduzione a pattume.
Lageristico, dicevo. Al limite dell’umano, dicevo.
Ecco, anche per noi, “Tutto è tornato vero”.
Viva Beccaria. Viva Calamandrei. E i barbari vadano all’inferno.
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