Questa è una storia paradossale. Una storia incredibile che accadono nel Bel Paese; forse di simili ne accadono anche altrove, se sì, la cosa non consola per nulla. La storia comincia nel 2013, quando un magistrato amministrativo viene arrestato. L’accusa è: corruzione. Paradossale per come si dipana (più propriamente: non si dipana); ancor più paradossale perché il magistrato in questione potrebbe aver ragione. Ragione nel merito, nel senso che potrebbe risultare alla fine innocente; ma paradossale anche perché pur risultasse colpevole, avrebbe comunque ragione.
Il “caso”, il paradosso, ha una data d’inizio certa (almeno quella): il 18 luglio 2013. Quel giorno Franco Angelo Maria De Bernardi, giudice del Tribunale Amministrativo del Lazio, si trova i polsi cinti da un paio di manette: si sarebbe accordato con un collega amministrativista per “indirizzare clienti presso lo studio legale, e porre in essere a loro favore indebite interferenze su assegnazioni, procedure e decisioni”. L’avvocato ben presto esce di scena: patteggia la pena, tre anni e mezzo. Il magistrato invece segue la trafila tradizionale. La sentenza di primo grado arriva il 22 luglio 2016, tre anni dopo. “Normale”. Il 6 agosto 2013 il giudice De Bernardi si è visto sospendere cautelativamente dal servizio; un qualcosa di automatico. Solo l’11 febbraio del 2015 il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa sostituisce quel provvedimento con la sospensione cautelare di tipo facoltativo.
In primo grado, il giudice De Bernardi viene condannato a otto anni, alla confisca di 115mila euro, all’interdizione perpetua dei pubblici uffici. Attenzione: siamo ancora al primo grado. De Bernardi è sì, condannato, ma formalmente è ancora innocente, perché in attesa che si esauriscano i tre gradi di giudizi.
Domanda: si può attendere all’infinito?
Anno di grazia 2002: la Corte Costituzionale ritiene incostituzionale, manifestamente eccessiva, una sospensione lunga quanto la prescrizione del reato. Linguaggio ampolloso, giuridicese; ma comprensibile anche a un profano:
…Una misura cautelare, proprio perché tendente a proteggere un interesse nell’attesa di un successivo accertamento, deve per sua natura essere contenuta in una durata strettamente indispensabile per la protezione di quell’interesse, e non deve gravare eccessivamente sui diritti del singolo che essa provvisoriamente comprime”.
In Italia la giustizia non viene amministrata come nei paesi anglosassoni. Una sentenza non fa, in quanto tale, “legge”, e possono benissimo esserci verdetti opposti in casi simili. Ad ogni modo, se ne tiene conto, Nel caso del giudice De Bernardi, che fare? In attesa di definitiva sentenza, è già trascorso un tempo infinito. I cinque anni di durata massima come clausola generale di sospensione sono abbondantemente trascorsi. Si può rinnovarla, la sospensione facoltativa dal servizio; ma questa volta per farlo non ci si può appellare a motivi di opportunità; si dovrebbe entrare nel merito dei fatti. Prudentemente il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa preferisce un’altra strada: assegnare il giudice De Bernardi al TAR della Valle d’Aosta; a dire il vero, prima si era individuata nel Piemonte, la sede dove assegnare il giudice De Bernardi; ma i colleghi del TAR piemontese obiettano: “C’è il rischio di menomazione al prestigio, oggettivamente derivante dalla pendenza di un processo per reati gravi connessi all’esercizio delle funzioni giurisdizionali”. E sicuramente è obiezione fondata, non solo legittima; tuttavia, come mai il rischio di “menomazione al prestigio” si potrebbe consumare in Piemonte, ma non nella Valle d’Aosta?
Per ricapitolare:
1) paradossale che per un grave reato, che vede accusato un magistrato, la sentenza di primo grado giunga tre anni dopo l’arresto;
2) paradossale che la vicenda non sia ancora definita, che l’accusato resti “appeso” a un giudizio che non arriva, e nel frattempo sia sospeso dalle sue funzioni;
3) paradossale che possa riprendere a esercitare la sua funzione, perché la definitiva sentenza tarda ad arrivare;
4) paradossale che possa esercitare la sua funzione in una regione piuttosto che in un’altra: in una può procurare “menomazione al prestigio”, ma la stessa “menomazione” non la si consuma in una regione confinante.
C’è poi un quinto paradosso: il giudice De Bernardi è vicino alla pensione. Il problema della possibile “menomazione” si estinguerà, se così si può dire, naturalmente. Il sesto paradosso è che tutta questa concatenazione di paradossi sia percepita, vissuta, considerata cosa assolutamente “normale”.
Caso isolato, potrebbe pensare qualcuno.
Purtroppo no. La giustizia in Italia non funziona; e non è solo carcere per innocenti; e, in parallelo, farabutti che troppo spesso la fanno franca. Quando si dice giustizia “malata” si dice un qualcosa che frena gli investimenti; la non certezza del diritto, la lunghezza dei processi allontana impaurito l’investitore straniero; alimenta la fuga di capitali; le detenzioni ingiuste comportano milioni di risarcimento ogni anno. La giustizia “malata” costa due punti e mezzo di Prodotto Interno Lordo: circa 40 miliardi di euro. Tanto, per esempio, si potrebbe recuperare se la giustizia civile italiana si allineasse ai tempi di quella tedesca. Ogni anno le imprese italiane spendono circa tre miliardi di euro di costi legali e amministrativi solo per i contenziosi lavorativi: un vero e proprio salasso per l’economia del Paese e le tasche di tutti.
Nonostante qualche progresso negli ultimi anni, la giustizia civile italiana appare ancora lontana dagli standard degli altri Paesi europei. In media i tempi per una sentenza nelle procedure civili raggiungono i 991 giorni: più del doppio della media in Spagna (510 giorni), Germania (429 giorni) e Francia (395 giorni).
La “lentezza” della giustizia civile è uno dei fattori che maggiormente penalizza la competitività dell’economia italiana. Meno efficiente è la giustizia, più è difficile l’accesso al credito, peggiore è il funzionamento dei mercati, minori gli investimenti, anche quelli dall’estero, per i quali il ‘pantano percepito’ della giustizia italiana è uno dei principali freni.
Nell’ultimo decennio, gli investimenti esteri in Italia sono stati in media un terzo rispetto a quelli dei principali competitor europei. Secondo il Fondo Monetario Internazionale la principale causa della scarsa attrattività nazionale risiede proprio nell’inefficienza giudiziaria. I tempi pachidermici della giustizia civile comportano anche costi non facilmente monetizzabili: sfiducia dei giovani nel futuro, fuga di capitale umano, burocrazia sempre più invasiva e opprimente.
In una lettera a Giovanni Amendola, Benedetto Croce raccontava dei guai giudiziari capitati a Giuseppe Prezzolini, e la concludeva con la raccomandazione di stare sempre e comunque il più lontano possibile da tribunali e aule di giustizia. Quella lettera porta la data del 1911. E’ amaro che quel “consiglio”, vecchio di più di cent’anni, sia tuttora valido.