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Due sportelli per i diritti dei detenuti: Siciliano racconta il ‘suo’ San Vittore

Intervista al Direttore del carcere milanese sull'iniziativa che prova a rispondere a criticità come il sovraffollamento e le difficoltà di reinserimento sociale

Beatrice SpadacinibyBeatrice Spadacini
Due sportelli per i diritti dei detenuti: Siciliano racconta il ‘suo’ San Vittore

Giacinto Siciliano.

Time: 9 mins read

Giacinto Siciliano è Direttore della casa circondariale San Vittore, che attualmente conta circa 1000 detenuti, molti dei quali sono in attesa di giudizio. Dopo dieci anni ad Opera, lo scorso anno è passato a dirigere lo storico carcere milanese, che ha ospitato, tra gli altri, il boss Totò Riina. Proprio a San Vittore – dove i detenuti sono 952, su una capienza di circa 700 posti – sono stati di recente inaugurati lo ‘Sportello del Garante dei detenuti’ e lo Sportello del lavoro, iniziative che cercano di rispondere a diverse criticità quali il sovraffollamento e le difficoltà nel reinserimento sociale degli ex carcerati, ma anche atte a favorire gli incontri con le famiglie e le attività ricreative: in poche parole, uffici che si occupano di garantire il rispetto dei diritti civili e sociali dei detenuti. Il tutto, gestito dal Difensore regionale Carlo Lio.

Cosa significa l’apertura di questi sportelli nel carcere di San Vittore?
“Il Garante Regionale è una figura che si occupa della tutela dei diritti delle persone private della libertà in carcere ma anche fuori, nei centri di accoglienza e nelle strutture restrittive. Abbiamo aperto uno sportello interno cui i detenuti possono rivolgersi senza formalità a tutela dei propri diritti o per segnalare problemi che non riescono a risolvere e che dipendono da organi ed istituzioni esterne al carcere. È un servizio voluto dal Garante della regione Lombardia, già peraltro attivo in diversi istituti della Regione. L’innovazione sta nel fatto che ora viene istituzionalizzato come sportello all’interno del carcere perché quello che stiamo cercando di fare è di portare più servizi dentro il carcere.  Prevedere in un istituto penitenziario la presenza di una figura ed una voce esterna che può ascoltare e rappresentare il detenuto, consente di istituzionalizzare un luogo ed un servizio per dire che l’istituzione penitenziaria ti offre quello che ti serve. Se non te lo da, tu hai il diritto di lamentarti e se ci sono dei problemi che tu da cittadino non riesci a risolvere, il Garante deve fare da intermediario e da interlocutore con le altre figure istituzionali.  L’idea è che il carcere, al di là della privazione della libertà e delle limitazioni che ciò comporta, deve creare all’interno un sistema analogo a quello che esiste fuori. Il nostro obiettivo è quello di portare la persona ad accettare in modo responsabile e consapevole le regole. Per fare ciò, bisogna anche assicurare tutti quei diritti che ti spettano, perché nel momento in cui vengono riconosciuti quei diritti, si può pretendere il pieno e consapevole, ma non autoritario, rispetto dei doveri”.

foto di Stefano Gusmeroli.

Alla luce di questi obiettivi, come lavorerà, dunque, lo Sportello?
“Per quanto riguarda lo Sportello del Centro per l’impiego, noi lavoriamo molto sulla fase dell’accoglienza. Gli operatori cercano di capire chi sei, perché sei qui, quali sono le aree su cui possiamo lavorare insieme (famiglia, lavoro, formazione professionale o altro) in modo da orientarti su un percorso interno, anche in attesa della condanna; ovviamente sempre su base volontaria perché il nostro principio costituzionale è che se sei condannato, io debbo “provare” a rieducarti. Se invece sei imputato, io non posso cambiare chi ancora non si sa se sarà colpevole o meno e se quella persona non chiederà di lavorare con lui o lei. Ciò non vuol dire ammissione di colpevolezza ma vuole dire lavorare insieme per sostenere gli interessi e per continuare a sviluppare la personalità. Noi facciamo questa prima valutazione al fine di orientare un percorso dall’interno e creare i presupposti per un percorso esterno, autonomo e consapevole del rispetto delle regole”.

Come avviene questa fase di valutazione?
“La valutazione si muove su diversi fronti: la gestione del rischio suicidio. Se una persona è a rischio dobbiamo attivare una serie di interventi orientati ad evitare che ciò accada. Poi ci attiviamo sugli elementi del trattamento: scuola, formazione professionale e lavoro. Sostanzialmente, abbiamo uno sportello scuola che fa la valutazione delle competenze scolastiche, che dice quale livello di preparazione ha questa persona, certificata o non certificata. Poi valutiamo la formazione professionale: cosa sai fare e cosa non sai farei. E per il lavoro, cerchiamo di capire cosa hai fatto fino ad ora. Unendo quest’analisi alle prospettive di famiglia, di alloggio esterno o altro, si cerca di definire insieme al detenuto un percorso da fare durante la carcerazione, quindi in qualche modo, si costruisce un progetto. La grande scommessa del nostro sistema in questo momento è quella di non gestire numeri ma costruire dei percorsi. Quindi, il nostro trattamento individualizzato sulla persona deve diventare un percorso che la persona fa in carcere con il supporto degli operatori in grado di preparare il rientro in società”.

Avete già degli indicatori di successo su questo approccio riabilitativo?
“Esiste già un orientamento in tal senso, ma è chiaro che i grandi numeri rendono la scommessa difficile. Sicuramente, in una casa circondariale come questa, con oltre mille detenuti in attesa di giudizio, è difficile pensare al progetto. Io preferisco puntare sull’immediato. Quindi la grande sfida in questo momento è dire, ma perché perdere tempo? Se tra un anno sarai condannato, perché perdere un anno? In un anno questa persona ha aumentato la sua rabbia e la sua frustrazione. Se invece quell’anno lo utilizziamo nel miglior modo possibile, quando sei condannato già si sa chi sei e che cosa puoi fare e se la pena è sotto ai cinque o sei anni – a seconda di quelle che sono le nostre misure alternative – io posso addirittura anticipare il tempo in cui il detenuto possa godere di un beneficio esterno. In Italia, alcuni detenuti possono uscire per andare a lavorare e a volte possono anche andare a casa e rientrare la sera in istituto. Ci sono una serie di strumenti che ti consentono di espiare parte della pena all’esterno, ovviamente dipende dal tipo di reato commesso. Ad esempio, per il reato di mafia questo non è possibile. Per i reati minori, non violenti o di non particolare rilievo sociale, la tendenza è fare in modo che la pena venga espiata in regime di semi libertà – che è ciò che ti consente di uscire alla mattina e di tornare in carcere alla sera, con ovviamente delle regole da rispettare”.

Che tipo di lavoro fate con la società esterna per aumentare le probabilità di un reinserimento positivo dell’ex detenuto?
“Banalmente, offrire questi servizi e pubblicizzarli attraverso le conferenze stampa o i giornali significa di fatto amplificare un certo tipo di discorso e dire alle persone fuori: attenzione, noi in carcere stiamo lavorando per la società. Così facendo, la persona uscita dal carcere non è una persona abbandonata a se stessa, ma è una persona che durante il periodo dell’incarcerazione ha fatto un percorso e tutta una serie di attività. In qualche modo ciò serve a creare intorno al carcere e all’ex detenuto una maggiore considerazione. Ovviamente, non intendiamo dire che i detenuti non hanno commesso reati o che sono cambiati e non li commetteranno mai più; però è importante far capire alla gente che il carcere è un contesto dove si lavora affinché gli atti criminali non si ripetano. Contrariamente agli Stati Uniti, noi non abbiamo strutture penitenziarie private a scopo di lucro. La gestione dei servizi per i carcerati è prettamente pubblica. Tuttavia abbiamo una serie di servizi che sono delegati al privato sociale esterno. Esistono cooperative e comunità di cui noi ci possiamo avvalere però restano sempre sotto la nostra gestione. Nei casi di semi libertà, dove il detenuto passa parte della giornata fuori, viene affidato alla comunità o alla cooperativa. Lallo scopo di farlo lavorare, dargli un sostegno psicologico e l’aiuto di cui necessita”.

Quali sono i problemi più comuni che gli ex detenuti debbono affrontare una volta fuori?
“Intanto, non è facile rientrare in società ed essere accettato. Per questo noi lavoriamo molto sulla pubblicizzazione di quello che di buono si fa in carcere. La gente deve capire che non basta essere detenuto per essere pericoloso così come non basta essere pericoloso per non essere detenuto. Occorre valutare la persona. Se lo Stato ha funzionato, la persona quando esce è come gli altri. Poi sicuramente c’è il discorso del lavoro perché in un contesto di crisi lavorativa, se si deve assumere, non si sceglie l’ex detenuto a meno che questi non abbia delle competenze tali che lo rendono perfettamente idoneo a quella posizione. È importante sottolineare che il nostro legislatore ha fatto la scelta che il detenuto debba essere retribuito, anche quando lavora in carcere per una somma pari a 2/3 del contratto collettivo di categoria. Vuole dire che se un detenuto lavora a tempo pieno ha una retribuzione decente, e se lavora fuori deve essere retribuito. [Ndr: in America i detenuti vengono pagati una media di $2 al giorno, una paga simbolica che non consente di risparmiare nulla.] I problemi seri sono il lavoro e la casa. La casa te la devi comunque pagare e quindi si deve avere un lavoro. In una città come Milano il tenore di vita è alto, il discorso casa resta pertanto assai difficile”.

foto di Stefano Gusmeroli.

Qual è il tasso di recidiva a San Vittore e in media in Italia?
“Quando in carcere non si fa fare nulla al detenuto, si ha un tasso di recidiva del 70%. Se invece tieni i detenuti sono impegnati in attività, viene loro data una formazione scolastica o professionale; ci sono casi dove il tasso di recidiva si abbassa anche fino al 18%. Però il tasso medio nazionale continua ad essere sul 70%. Il problema è che il soggetto che arriva in carcere è già in parte emarginato, è già in povertà e già in degrado. Non si può pensare che il carcere gli dia quello che non aveva prima. Questo fatto inevitabilmente determina un alto rischio di recidiva. Sicuramente, il rischio di recidiva è più basso per quelli che hanno le misure alternative, come la semilibertà o altro, perché essere meno a contatto con il carcere ti fa essere meno a contatto con la delinquenza. In qualche modo il branco corre il rischio di risucchiarti perché esiste anche la persona debole, quella poco strutturata, che per sopravvivere, si adegua e accetta brutte situazioni. È chiaro che non è sempre così ma qualche rischio oggettivo esiste”.

In America esiste il bail ovvero la cauzione per uscire dal carcere quando una persona è in attesa di giudizio. Esiste anche in Italia?
“No, se c’è l’esigenza della custodia cautelare, le persone debbono restare in carcere in attesa di giudizio. Io penso che la nostra scelta sia storicamente di non consentire a chi ha soldi di sottrarsi alla giustizia, perché ad esempio, la criminalità organizzata ha soldi. Tutta la criminalità organizzata avrebbe i soldi per pagare, quindi si creerebbe una fascia di impunità molto alta. [Ndr: In America esistono anche stati dove ci sono industrie a scopo di lucro che pagano la cauzione per conto dei detenuti con interessi molto alti, a prescindere dalla presunta colpevolezza dell’imputato]”.

Mi racconta di un caso o di un intervento che ha avuto successo?
“Ce ne sono molti per fortuna ma in questo momento ho deciso di portare qui a San Vittore dei detenuti ergastolani di mafia che però hanno fatto un percorso importante  e si sono pubblicamente e concretamente  distanziati dalla malavita e noi li stiamo sostenendo anche su questo. Vengono a San Vittore per incontrare i nostri giovani adulti, che sono i ragazzi sotto i 25 anni e in qualche modo far capire loro il senso sbagliato delle scelte. Sappiamo per certo che qualunque cosa dica il giudice, il magistrato o il noto politico o il Direttore del carcere, al detenuto non importa, difficilmente lo ascolta. Se invece me lo dice chi ha sbagliato: “Guarda io avevo il mondo in mano alla tua età e ho fatto questa fine. Non fare le cavolate che ho fatto io.” Questa cosa funziona molto. Parlando lo stesso linguaggio, soprattutto quello dei giovani, arrivano dove noi non riusciamo ad arrivare. Paradossalmente, più è importante il detenuto – quello molto famoso, quello che ha ucciso tanto o ha commesso gravi reati – più forte sarà l’impatto. Se lui dice che ha fatto scelte sbagliate: “Ho fatto questa fine, mia moglie mi ha lasciato, mio figlio non l’ho mai visto, sono rimasto solo, mi sono fatto 30 anni di carcere e ora non ho nulla davanti” è ovviamente molto più efficace di quello che ha fatto la rapina il giorno prima e che semplicemente dice “non lo faccio più.” Più viene portata a testimoniare una persona che è riconosciuta come il top della pericolosità, più il messaggio passa perché, “se lo ha fatto lui e non si è vergognato di redimersi, lo posso fare anche io”.

Ogni anno il 7 dicembre il carcere di San Vittore proietta in diretta la Prima della Scala, una delle tante vostre iniziative culturali. Mi spiega il perché di queste iniziative?
“Dobbiamo usare tutti gli strumenti a nostra disposizione per portare la persona a cambiare il proprio rapporto con sé stesso e con gli altri. Quindi puntiamo sull’arte, il teatro, la cultura e la musica. Il nostro obbiettivo è aprire mondi diversi ai detenuti. Ma è anche un modo per aprire il carcere al mondo esterno. Ci sono persone che invece di andare alla prima della Scala, vengono qui a San Vittore. La prima della Scala diventa paradossalmente uno strumento di sensibilizzazione sul mondo del carcere. Alla fine dell’evento c’è anche un momento di convivialità dove i detenuti condividono con gli ospiti il risotto alla milanese preparato da loro. È una cosa molto bella e molto forte che avvicina realtà diverse.  Facciamo anche molto teatro all’interno del carcere. Storicamente e scientificamente il teatro aiuta le persone a guardarsi dentro. Il gioco dei ruoli e l’immagine ti consente di vedere da fuori, di identificarti con un personaggio positivo ma anche di vederti e di vedere l’altro. Impari anche a capire la differenza tra realtà e storia/scena. Poi, sicuramente, è un lavoro di squadra per cui sei costretto a relazionarti con gli altri. Oggi puoi essere il protagonista ma nello spettacolo successivo sei solo la comparsa. Il teatro è una delle cose più efficaci per il cambiamento della persona. L’arte in generale. Anche lo sport, fatto di regole, di sacrificio, di sofferenza, di squadra significa rispetto dell’altro, rispetto del nemico, rispetto delle regole. Noi abbiamo anche in questo diversi progetti strutturati con associazioni esterne. Facciamo laboratori di poesia. C’è gente che è rimasta in silenzio per anni dentro un laboratorio e poi ti scrive una poesia che vince addirittura un premio! Riesce a fare cose che non avrebbe mai pensato di poter fare. Noi dobbiamo in qualche modo riscoprire le risorse nascoste di ognuno. Questo dovrebbe essere l’obbiettivo del carcere e al contempo dare loro il significato ed il valore delle regole, sapendo che non possono essere solo imposte. Le regole devono essere scelte in modo responsabile e consapevole”. 

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Beatrice Spadacini

Beatrice Spadacini

Beatrice M. Spadacini è una giornalista che ha lavorato per anni nella cooperazione internazionale e ha spesso scritto su tematiche sociali e politica estera. Il suo primo lavoro dopo l'università fu come capo ufficio stampa di Amnesty International in Italia, un'esperienza che ha influenzato la sua visione su come i diritti umani siano al centro di molte ingiustizie sociali. Dope avere vissuto in Kenya per sette anni, Beatrice è rientrata negli Stati Uniti insieme a sua figlia Zawadi, e ha lavorato per varie ONG e organizzazioni internazionali. Come giornalista, i suoi articoli sono apparsi su il Christian Science Monitor, Il Guardian, il Corriere della Sera, il settimanale East African e altri. Attualmente, Beatrice si sta concentrando su sistema giudiziario americano e le problematiche relative all'incarcerazione. Beatrice M. Spadacini is a DC-based freelance writer whose work has appeared in The Guardian, Sojourner magazine, iitaly, The Christian Science Monitor, AllAfrica.com, and other media outlets. She is also the manager of the Internews Health Journalism Network, a dynamic community of media professionals who cover global health. You can visit her website and follow her on Twitter @Bea_Spadacini.

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