Mentre il governo continua caparbiamente a riaffermare i tre pilastri della sua azione economica e sociale (reddito di cittadinanza, revisione della legge Fornero, ristrutturazione dei pensionamenti con la cosiddetta quota 100) senza sapere né come tradurli in legge né, soprattutto, come finanziarli, cominciano ad echeggiare tra gli elettori i primi mugugni e dissensi, soprattutto tra chi ha votato Movimento 5 stelle (M5S) e reputa di essere finito nelle mani sbagliate. Un recente sondaggio (non ancora pubblico ma visionato dall’autore) condotto da Istituto Nicola Piepoli in collaborazione con fondazione Pietro Nenni e Feps Bruxelles rivela di una forte nostalgia per gli anni ’70 e ’80 e la politica di quel tempo.
Il populismo in Italia ha preso il potere, oltre che per la crisi economica e certi eccessi di immigrazione, per precise responsabilità delle forze di centro-destra e centro-sinistra che hanno governato l’Italia negli ultimi 25 anni. Stile e contenuti dei loro governi non devono essere stati molto graditi a un elettorato rivoltatosi, lo scorso marzo, contro la “politica”, per premiare un non partito, il populista M5S, e il partito di Matteo Salvini, nato per separare dal resto d’Italia le regioni economicamente più avanzate del nord e oggi partito d’ordine. Ha contribuito anche la personalizzazione della politica, inaugurata da Berlusconi, che ha premiato, dopo Matteo Renzi, gli emergenti Salvini e Di Maio. Hanno pesato, inoltre, i continui bisticci interni, soprattutto tra i democratici, tradottisi nell’assassinio politico di Prodi e Letta, quindi nelle diaspore antirenziane.
Non che le forze dell’attuale governo non soffrano di contrasti interni, ma almeno non hanno mai preteso di vendere un’immagine armonica della loro collaborazione, facendola derivare da un “contratto” di governo sottoscritto proprio per appianare le differenze tra i rispettivi programmi. Non è questo che gli si rimprovera, ma l’irrisolutezza nell’assumere decisioni, la contraddittorietà delle misure socio-economiche rispetto agli obiettivi da raggiungere, l’isolamento nel quale stanno cacciando l’Italia per tentare di dare scacco alle istituzioni dell’Unione Europea e andare da “vincitori” al voto europeo di maggio. Nel frattempo l’Italia dopo gli anni del ministro dell’economia Padoan che aveva riportato a segno positivo il tasso di crescita del prodotto interno, registra, a causa anche del continuo rinvio delle misure economiche dell’attuale ministro Tria, il ritorno al trimestre di recessione.

Il che mal si lega con la pressante aspirazione al cambiamento che la citata ricerca Piepoli/feps manifesta, ancorandola con gli elettori di Salvini alla tradizione e all’intransigenza, con quelli M5S alle tecnologie e alla democrazia diretta. Il cambiamento può venire solo da una politica economica che restituisca agli italiani il lavoro perduto e faccia investimenti in infrastrutture e sviluppo. Ed è tuttavia difficile che ciò possa aver luogo, anche perché comincia a scarseggiare in Italia la materia prima indispensabile: il fattore umano per quantità e qualità. Da un lato il paese soffre ogni anno la doppia emorragia di non nati e di giovani che emigrano, dall’altra continua ad essere fanalino di coda nei dati che si riferiscono all’istruzione. Eurostat informa, per esempio che in quanto a livello di abbandono delle scuole secondarie, nel 2016 mentre la media dell’abbandono nella fascia 18-24 anni era dell’11,5%, in Italia arrivava al 14%, il sesto peggior risultato in tutta Europa. Tra il 1995 e il 2018, 3 milioni e mezzo di giovani italiani hanno abbandonato gli studi secondari per cercare un lavoro che non c’è o calarsi nello sconforto del far niente.
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