A Beirut, nell’aula magna dell’università gesuita Saint Joseph, in un convegno organizzato per onorare il messaggio di padre Paolo Dall’Oglio, il sacerdote finito più di cinque anni fa in uno dei tanti buchi neri della guerra siriana, un intellettuale di fede sciita, mentre si qualificava amico del dialogo tra culture e religioni, accusava Israele di sionismo. Benché animato di buone intenzioni, era vittima dell’intossicazione propagandistica alla quale in Medio Oriente governanti ed estremisti religiosi sottopongono chiunque.
Ho avuto modo di ragionare con quella brava persona e di portarlo a riflettere sul dialogo che fu aperto dai laburisti israeliani con i palestinesi di Arafat, complici altri socialisti delle democrazie scandinave, e di come quel dialogo fosse stato chiuso dai governi israeliani formati da destra e religiosi. Ho anche fatto presente, per stare ai tempi più recenti, la differenza tra una politica estera statunitense liberal che si è proposta come honest broker nella regione mediorientale e l’attuale estremismo populista che è arrivato a concepire lo snaturamento di Israele in paese esclusivamente ebraico e lo scippo di Gerusalemme come città di un solo popolo.
Trasportata nelle categorie della politica, la comprensione dello scontro tra israeliani e palestinesi e la contestuale ricerca di soluzione, non sapeva più che farsene del termine “sionismo” e ricercava negli strumenti consueti dell’analisi politologica scientifica le soluzioni per armonizzare gli interessi confliggenti.
Spontaneamente, mentre parlavo con quell’intellettuale di religione sciita, ho pensato al dibattito che, da settembre, si va sviluppando in Italia nel ricordo delle leggi razziali fasciste di ottant’anni fa, e ad una frase pronunciata da Mussolini nel Gran Consiglio nella prima mattina del 6 ottobre 1938, al termine del Gran Consiglio della notte. I gerarchi si riunivano dopo la pubblicazione il 14 luglio del “Manifesto della razza” ad opera di intellettuali organici al fascismo (ma in quella tragica brodaglia c’era integro la zampino del cavalier Benito!) e al discorso del capo del governo a Trieste il 18 settembre con l’anticipazione dei contenuti delle leggi antisemite e delle misure regolamentari di discriminazione che vennero assunte da novembre.
Disse il duce in quell’occasione, come ricordato da testimoni e memorialisti: ”Ora l’antisemitismo è inoculato nel sangue degli italiani. Continuerà da solo a circolare e a svilupparsi…”.
Il linguaggio adottato per l’occasione dal capo supremo del fascismo merita attenzione ed esegesi. Si noti innanzitutto il primitivismo vitalistico che lo qualifica.
Quell’offensiva, che veniva propagandata come interesse nazionale della stragrande maggioranza bisognosa di difendersi dall’esigua minoranza dei fedeli di religione ebraica, ad un attento esame si rivela per quello che è: l’attacco frontale contro ciascuno e tutti i cittadini italiani. In essi, nelle parole di Mussolini, veniva finalmente “inoculato nel sangue” l’antisemitismo, che avrebbe poi preso “da solo a circolare e a svilupparsi”.
Insomma, il capo del regime razzista e liberticida instaurato da quasi sedici anni, considera i connazionali alla stregua di topini, cavie di laboratorio nel cui sangue siringare il virus che ne avrebbe determinato i comportamenti successivi. Non è alla mente condizionabile dalla propaganda che il duce fa appello, ma al vitalismo elementare del “sangue” dove immagina possa ribollire l’ispirazione all’azione antiebraica collettiva.
Gli italiani brava gente, da topolini programmati, corrisposero. Dalla sera alla mattina, salvo rarissime eccezioni, iniziarono a gareggiare in meschinità e vigliaccheria scalando, alle spalle degli ebrei degradati o allontanati, posizioni sui posti di lavoro e nelle professioni che erano stati incapaci di guadagnare con il merito; acquisendo posizioni e proprietà che altrimenti non avrebbero avuto titolo ad assumere; tirando vantaggi i più diversi dalla disgrazia di concittadini dei quali magari erano stati sino a un istante prima amici, colleghi, compagni di fede intellettuale o politica.
In quell’ambiente andranno a collocarsi le disposizioni razziste che, nella banalità dell’esecuzione amministrativa, costituiranno la maggiore vergogna del ventennio, marchiando l’intero popolo italiano sodale del crimine. L’”inoculazione” aveva eliminato la capacità di giudizio, allineato la gente cavia nel pregiudizio e nel privilegio della presunta superiorità di specie.
Il tutto risulterà tragicamente ridicolo, alla luce di una scienza che spiegherà come le razze non siano altro che invenzione di menti malate e di sfruttatori che sul pregiudizio costruiscono fortune e dominanze. Gente paradossale i razzisti, che meritano un titolo dispregiativo riferito a qualcosa di inesistente (la razza).
L’amico sciita tacciava di sionismo i cittadini di Israele, ripetendo la millenaria cantilena del pregiudizio antiebraico. Tra gli argomenti utilizzati per portarlo a più ragionati consigli, ho raccontato la trama del film di José Luis Saenz De Heredia, Raza (1941), sceneggiato dallo stesso caudillo Francisco Franco. Nella storia di quattro generazioni di ufficiali del regno di Spagna viene cucinata l’esaltazione della cosiddetta “razza spagnola”. L’acme è raggiunto nella scena finale quando il fratello che milita nell’esercito legale repubblicano, tradisce i commilitoni girando ai felloni insorti, i piani della battaglia finale.
Invece di riconoscere la propria meschinità, l’ufficiale fellone si lancia in un peana a favore degli insorti, dichiarandoli i veri campioni della nuova umanità che esalteranno la “razza spagnola”.
Un altro spagnolo, un vero grande di Spagna, Francisco Goya, scrisse in tempi di altre orribili guerre e di scontro tra illuminismo e i pregiudizi del tradizionalismo oscurantista, sull’opera che apre (1799) il ciclo Los Caprichos : “El sueño de la razón produce monstruos”, il sonno della ragione produce mostri.