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Altro che carovana: a invadere gli USA dal Centro America sono i soldi della droga

Con la carovana dall'Honduras, Trump affila le armi in vista del midterm. Ma dietro a quel flusso di disperati, la vera emergenza è il narcotraffico

Giulia PozzibyGiulia Pozzi
Altro che carovana: a invadere gli USA dal Centro America sono i soldi della droga

© UNICEF/Adriana Zehbrauskas On the outskirts of Reynosa, Mexico.

Time: 5 mins read

La carovana di più di 7000 migranti – partita dall’Honduras e ingrossatasi di giorno in giorno – che sta cercando di raggiungere gli Stati Uniti ha offerto al presidente Donald Trump su un piatto d’argento l’occasione per rilanciare il tema dell’immigrazione proprio in periodo di elezioni di midterm. Non è un caso che, non appena la stampa ha cominciato a segnalare quanto stava accadendo a sud della frontiera meridionale degli Stati Uniti, il Commander-in-Chief abbia, come d’uso, dato il via a un vero e proprio urgano di tweet, prima minacciando il presidente dell’Honduras, Juan Orlando Hernández, di tagliare gli aiuti americani al suo Paese se non avesse riportato indietro la carovana, poi estendendo l’avvertimento ai leader di Guatemala ed El Salvador, anch’essi Paesi d’origine, oltre che di transito, del flusso. Quindi, Trump ha accusato il Partito Democratico di “essere alla guida” della carovana, ha messo fortemente in dubbio lo stato di indigenza e disperazione dei migranti, ha affermato che, in mezzo a loro, ci sono nascosti molti criminali e, dulcis in fundo, pericolosi “sconosciuti provenienti dal Medio Oriente”.

Guerriglieri dell’ISIS tra le file degli honduregni? Dopo l’allarme lanciato lunedì, martedì il Presidente ammetteva l’assenza di “prove” riguardo alle possibili infiltrazioni terroristiche, mentre nessuna evidenza veniva fornita da ufficiali dell’amministrazione americana e messicana. Sempre martedì, le autorità di frontiera a stelle e strisce esprimevano preoccupazione per l’aumento del 30%, nell’ultimo anno, di persone che hanno varcato il confine del Messico illegalmente. Intanto, in queste ore, si rincorrono notizie in merito a una seconda carovana che si starebbe formando in prossimità del confine honduregno. Contemporaneamente, tra le “teorie del complotto” diffuse sui media, c’è anche chi suggerisce che l’intera crisi possa essere stata orchestrata dai repubblicani per arricchire il proprio portafoglio elettorale in vista del 6 novembre.

Abbiamo chiesto al viceportavoce del Segretario Generale ONU, Farhan Haq, la posizione delle Nazioni Unite in merito alla questione, e al “pugno duro” mostrato dal presidente Trump in materia. La risposta che abbiamo ricevuto è stata estremamente diplomatica ed evasiva: “In Messico si trovano agenzie ONU, tra cui UNHCR e OIM, coinvolte nel trattare con le autorità locali, supportando i loro sforzi nel gestire quelle circa 7000 persone che si stanno spostando”. Un impegno, ha detto Haq, garantito dalle Nazioni Unite per qualsiasi altra comunità migrante nel mondo. Su Trump, massimo riserbo.

In realtà, la carovana in questione non ha fatto altro che puntare i riflettori su una crisi tutt’altro che nuova, che dovrebbe costituire una delle priorità della politica estera americana, crisi legata a doppio filo al narcotraffico e alla violenza che sta devastando l’Honduras, e lo ha reso, negli ultimi anni, uno dei Paesi più poveri, corrotti e bagnati di sangue dell’America Latina. Un Paese letteralmente dominato dalla guerra dei cartelli, dalla capillare presenza di gang e di  organizzazioni criminali transnazionali soprattutto dal Messico e dalla Colombia.

In anni più recenti, l’Honduras è diventata una nazione di transito strategica per il flusso di droga verso gli Stati Uniti, complice l’influenza di gruppi criminali che infiltrano la classe politica e manageriale e un sistema giudiziario mangiato vivo dalla corruzione. Fino alla metà degli anni Ottanta, il Paese è stato dominato dai militari, che hanno supportato entusiasticamente i tentativi a stelle e strisce di contrastare i movimenti rivoluzionari (comunisti) nella regione. Gli Stati Uniti, in effetti, considerano l’Honduras un alleato chiave, che ospita anche una loro base militare strategica, ma già lo scorso anno, dopo le difficili e contrastate elezioni nel Paese, alcuni analisti facevano notare come Washington fosse destinata a pagare le conseguenze – in termini di ondate migratorie e narcotraffico – del “tacito supporto” (o perlomeno della non esplicita e dura condanna) in occasione del colpo di stato del 2009.

In effetti, la carovana è la punta dell’iceberg di un fenomeno in corso da anni. Nel 2015, il numero di richiedenti asilo in tutto il mondo proveniente da quello che viene chiamato “Central America’s Violent Northern Triangle” (Honduras, Guatemala, El Salvador) ha raggiunto le 110mila persone, ed è cresciuto di 5 volte dal 2012. Sempre nel 2015, vivevano negli Stati Uniti almeno 3,4 milioni di persone originarie di quella zona, il 55% delle quali senza documenti.

Le recenti amministrazioni americane hanno cercato di affrontare la questione in diversi modi. George Bush ha puntato a favorire crescita e stabilità introducendo riforme di libero mercato. Con il Millennium Challenge Corporation, la sua amministrazione ha assegnato centinaia di milioni di dollari in sussidi all’Honduras, al Nicaragua e a El Salvador. Nel 2005, di fronte a una nuova ondata migratoria, Bush adottò una politica di “tolleranza zero”: i migranti che oltrepassavano illegalmente la frontiera venivano perseguiti e deportati. Quindi, il suo successore Barack Obama lanciò la Central America Regional Security Initiative, attraverso la quale, negli anni, Washington ha garantito più di 1 miliardo di dollari di aiuti destinati alla sicurezza, al contrasto del narcotraffico e al sistema giudiziario. La strategia del predecessore di Trump comprendeva anche l’Alliance for Prosperity (A4P), sforzo multimilionario congiunto tra i tre Paesi del Centro America e la Banca di Sviluppo Inter-Americano per promuovere commercio e sicurezza. Nel 2016, per far fronte a un nuovo record di arrivi dal Centro America, anche l’ex Presidente ha ordinato la deportazione di migranti di recente arrivo le cui richieste di asilo politico erano state respinte.

Quanto a Trump, l’attuale Commander-in-Chief ha in sostanza mantenuto parte degli approcci tentati dai suoi predecessori, continuando ad esempio il programma A4P, ma ha contemporaneamente inasprito il pugno duro contro l’immigrazione illegale: nei prossimi anni, 350mila immigrati da quei Paesi perderanno il loro diritto di risiedere negli USA a seguito della revoca del loro permesso temporaneo. Trump sta inoltre implementando la costruzione del muro al confine con il Messico, come ampiamente promesso in campagna elettorale, e adottando politiche volte a scoraggiare l’immigrazione, che prevedono la criminalizzazione di quella illegale (con la conseguente separazione dei minori dai propri genitori).

Tutti sforzi – soprattutto quelli relativi al blocco delle migrazioni – che assomigliano, più che altro, a un cerotto troppo piccolo appiccicato su una ferita purulenta. Non solo il muro non fermerà il flusso di droga e difficilmente scoraggerà a lungo termine i tanti disperati che ciclicamente cercano di forzare il confine, sospinti dalla violenza e dal sangue seminati dalle gang, ma soprattutto non incide minimamente sulla linfa che nutre lo stesso sistema finanziario americano: il fiume di denaro sporco dei cartelli del narcotraffico, in primis messicani, che proprio negli Stati Uniti viene riciclato. Anche attraverso colossi bancari americani ed europei, come hanno ampiamente dimostrato molte inchieste di questi anni. Droga e soldi sporchi, non persone: ecco la vera “invasione”. Il cui contrasto dovrebbe essere l’assoluta priorità di USA ed Europa.

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Giulia Pozzi

Giulia Pozzi

Classe 1989, lombarda, dopo la laurea magistrale in Filologia Moderna all'Università Cattolica di Milano si è specializzata alla Scuola di Giornalismo Lelio Basso di Roma e ha conseguito un master in Comunicazione e Media nelle Relazioni Internazionali presso la Società Italiana per l'Organizzazione Internazionale (SIOI). Ha lavorato come giornalista a Roma occupandosi di politica e affari esteri. Per la Voce di New York, è stata corrispondente dalle Nazioni Unite a New York. Collabora anche con "7-Corriere della Sera", "L'Espresso", "Linkiesta.it". Considera la grande letteratura di ogni tempo il "rumore di fondo" di calviniana memoria, e la lente attraverso cui osservare la realtà.

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