Era il 5 ottobre 2017, quando un’inchiesta bomba del New York Times accusò l’intoccabile produttore di Hollywood Harvey Weinstein di aver molestato sessualmente delle donne e poi averle pagate per “blindare” gli scabrosi episodi che le avevano riguardate. Poco dopo, un pezzo del settimanale New Yorker portava alla luce nuove testimonianze contro il produttore. Era l’alba del movimento #MeToo, scatenatosi come un fiume in piena dentro e fuori i social network, e che ha portato tante donne, anche famose, ad esporsi in prima persona, raccontando la propria storia di molestie e abusi.
Nessuno, in effetti, avrebbe potuto facilmente prevedere che quelle inchieste non avrebbero soltanto affossato un personaggio influente e potente come Weinstein, ma avrebbero addirittura portato alla riscossa un nuovo movimento prevalentemente al femminile, che chiedeva non soltanto rispetto per il corpo delle donne, ma anche sostegno e giustizia per le vittime, tutte, di violenza sessuale. A un anno di distanza, quel movimento non solo è ancora vivo, ma si è ingrossato, strada facendo, travolgendo come un fiume in piena nuovi personaggi di spicco di vari ambienti – dall’arte alla politica, passando per il giornalismo -. Non sarà superfluo ricordare che anche il presidente Donald Trump è stato obiettivo delle accuse di 17 donne, prima e dopo lo scoppio di #MeToo.
Ironia della sorte, esattamente 365 giorni dopo quella prima inchiesta su Weinstein, il Senato degli Stati Uniti d’America ha approvato, con un voto procedurale, la chiusura del dibattito sulla nomina del giudice Brett Kavanaugh alla Corte suprema, in attesa del voto finale previsto per sabato. L’epilogo della vicenda lo si conoscerà tra poco meno di 24 ore, ma il primo sì al giudice, nonostante l’accorata e coraggiosa testimonianza di Christine Blasey Ford della settimana scorsa, pesa già come un macigno sul bilancio di questo primo compleanno del #MeToo. Proprio nelle stesse ore, il Premio Nobel per la Pace veniva però conquistato da Denis Mukwege e Nadia Murad “per i loro sforzi per mettere fine alle violenze sessuali nei conflitti armati e nelle guerre”: Mukwege, ginecologo congolese, ha dedicato la sua vita a curare e difendere le donne che hanno subito terribili violenze e abusi. Murad, attivista della minoranza curda degli Yazidi in Iraq, ha raccontato le violenze subite durante la sua prigionia nello stato dell’ISIS, sensibilizzando l’opinione pubblica mondiale quando ancora molte donne yazide erano prigioniere. Un’assegnazione simbolica e significativa, in questo preciso momento storico, riconosciuta anche dal Segretario Generale ONU Antonio Guterres, che ha sottolineato: “Onorando questi difensori dei diritti umani, questo premio riconosce anche dignità alle innumerevoli vittime in tutto il mondo, che troppo stesso sono state stigmatizzate, nascoste o dimenticate”.
Kavanaugh e il premio Nobel: una ferita (con riserva) e una carezza al Movimento, giunte praticamente nelle stesse ore. E in effetti, la sensazione è che il #MeToo viva di passi avanti e passi indietro, di conquiste e di sconfitte, di adesioni e di resistenze. Intendiamoci: il movimento ha già di per sé una valenza politica e culturale straordinaria, indipendentemente dai suoi effetti pratici. Se non altro perché, oltre a portare il dibattito alla luce del sole conquistandosi l’attenzione dei principali media mondiali, per le vittime di abusi e violenze sessuali è stato quasi una catarsi. In queste ultime settimane, al #MeToo si è affiancata, a partire da New York, un’altra campagna contigua alla principale, lanciata da due studentesse della School of Visual Art: #WhyIDidntReport. Migliaia di persone, donne e uomini, si sono riversate sui social, a colpi di hashtag, per spiegare perché non abbiano mai potuto o voluto denunciare i propri aggressori, sulla scia della testimonianza di Christine Blasey Ford. La sensazione che si ha leggendo quella marea di tweet è simile a quella che si aveva mesi fa leggendo quella del #MeToo: tante donne e uomini che, finalmente, trovano ascolto, riscatto e solidarietà, parlando del trauma subito e per troppo tempo nascosto. E si fanno forza a vicenda. Questa, insomma, è già una vittoria.
A livello sociale e culturale, il #MeToo ha ottenuto che nessuno, neppure chi occupa i piani più alti del mondo, possa più permettersi di ignorare la voce delle donne e delle vittime. Questo, però, non significa ancora per i sopravvissuti essere più vicini ad ottenere giustizia o, perlomeno, ad essere creduti. Su questo, la strada che si schiude davanti al movimento è ancora lunga: lo dimostra la vicenda di Kavanaugh, lo dimostra un’opinione pubblica – nazionale e mondiale – ancora fortemente spaccata e la diffidenza (per usare un eufemismo), ancora diffusa, che circonda il #MeToo soprattutto in ambienti conservatori. Lo dimostra il fatto che il presidente degli Stati Uniti d’America, anche lui accusato di molestie da diverse donne, esulti per il primo sì a Kavanaugh e lo consideri una vittoria politica. Infatti già da giorni, Trump nei suoi comizi elettorali in giro per gli Stati Uniti, aveva cominciato ad attaccare le donne, come Christine Ford, che denunciavano le violenze a distanza di tanto tempo e senza avere le prove.
Certo: non siamo ancora arrivati ad assistere alla vera rivoluzione culturale che il #MeToo si prefigge come obiettivo. Ma il fatto stesso di aver imboccato la strada per arrivarci è certamente un ottimo inizio. Nel frattempo, le mille polemiche e le proteste che circondano il caso Kavanaugh potrebbero, a ben vedere, fare il gioco del Commander-in-Chief, in queste ore non a caso impegnato ancora a pubblicare una tempesta di tweet contro Christine Ford, sulle proteste e a sostegno del giudice: perlomeno, fino a quando serviranno per distogliere l’attenzione sullo scandalo emerso da una inchiesta del New York Times, sui guai fiscali della sua famiglia…