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Dopo lo sciopero nelle prigioni americane, più consapevolezza ma pochi cambiamenti

I detenuti in sciopero già da due settimane hanno esposto le loro richieste, tra cui l’eliminazione del lavoro non remunerato o pagato somme irrisorie

Beatrice SpadacinibyBeatrice Spadacini
Dopo lo sciopero nelle prigioni americane, più consapevolezza ma pochi cambiamenti

Photo credit: Incarcerated Workers Organizers Committee

Time: 4 mins read

Questo fine settimana si è concluso uno sciopero nazionale nelle prigioni americane a cui hanno partecipato centinaia di detenuti in almeno 11 stati.  Mentre milioni di cittadini americani hanno celebrato, una settimana fa, il Labor Day (“La giornata dei Lavoratori”, l’equivalente del nostro Primo Maggio), i detenuti americani in sciopero già da due settimane hanno esposto le loro richieste, tra cui l’eliminazione del lavoro non remunerato o pagato somme irrisorie e che a volte si traduce persino in pochi centesimi l’ora.

Questa pratica è consentita dal tredicesimo emendamento della costituzione Americana che ha abolito la schiavitù nel 1865 ma ha fatto eccezioni particolari. Il primo paragrafo di questo emendamento sostiene che “Né la schiavitù o il servilismo involontario, tranne come punizione per un criminale condannato, possono esistere negli Stati Uniti o in luoghi sotto la propria giurisdizione.”

Dato che maggioranza dei detenuti nelle prigioni americane sono sproporzionatamente afroamericani, latinoamericani o indiani d’America, non sorprende il fatto che il lavoro nelle prigioni venga spesso chiamato “lavoro per schiavi.” Certo, il lavoro nelle prigioni viene considerato un privilegio, in quanto offre la possibilità di apprendere un mestiere rivendibile, ma la miserrima paga ricorda forme di sfruttamento storico che hanno beneficiato lo status quo.

Gli organizzatori dello sciopero hanno esposto altre richieste. Secondo un comunicato stampa della Jailhouse Lawyers Speak (JLS), un gruppo che rappresenta i detenuti della Carolina del Sud, le richieste includono un miglioramento delle condizioni umanitarie all’interno delle prigioni, servizi di riabilitazione per tutti i detenuti, una riforma delle condanne, il diritto al voto, e la rimozione delle barriere che consentono ai detenuti di inoltrare una causa federale.

Lo sciopero nelle prigioni americane è stato organizzato a seguito di una rivolta scoppiata lo scorso mese di aprile all’interno del Lee Correctional Facility, una prigione di massima sicurezza nello stato della Carolina del Sud, dove sono morti sette detenuti e rimasti feriti molti altri.  La data della fine dello sciopero, il 9 settembre, rappresenta la commemorazione della rivolta del 1971 nella Correctional Facility di Attica, nello stato di New York, che risultò in 39 morti. Tale rivolta mise in evidenza le violazioni dei diritti umani da parte delle guardie sui detenuti.

Gli Stati Uniti hanno uno dei sistemi penali meno umani di tutte le democrazie occidentali. Nonostante rappresenti solo il 5 per cento della popolazione mondiale, il paese incarcera più di un quarto di detenuti nel mondo. È inoltre anche l’unico paese al mondo che consente di incarcerare i minorenni a vita, senza nessuna possibilità di libertà condizionale.

Questo sciopero si è manifestato in diversi modi. Alcuni detenuti si sono rifiutati di lavorare, altri hanno smesso di acquistare beni e servizi di consumo all’interno delle prigioni e altri ancora hanno deciso di fare uno sciopero della fame. Gli organizzatori, e quelli che hanno aderito alla protesta, si aspettavano rappresaglie e dure punizioni. Secondo la stampa americana, questo è esattamente ciò che è avvenuto nelle ultime due settimane.

In un segmento di Democracy Now del 30 agosto, la presentatrice Amy Goodman parla con Amani Sawari, organizzatrice dello sciopero nelle prigioni per conto dell’organizzazione JLS. Sawari conferma che uno degli organizzatori detenuto in una prigione del Texas è stato messo in una cella d’isolamento di cemento con una temperatura di circa 37 gradi. Altre forme di rappresaglia hanno incluso perquisizioni giornaliere che obbligano i detenuti a spogliarsi e la perdita di privilegi di comunicazione con l’esterno, tra cui le visite con i famigliari e le telefonate.

Parte del problema quando si cerca di fare un’indagine su ciò che accade all’interno delle prigioni, è l’assoluta mancanza di trasparenza e di informazione da parte delle autorità. Per un paio di giorno dopo l’inizio dello sciopero, il 21 agosto, il Comitato di Organizzazione dei Lavoratori Incarcerati ha mantenuto informazioni aggiornate sul loro sito internet. Ma con il passare dei giorni, gli aggiornamenti sono diventati sempre meno frequenti. In un interessante articolo uscito su Columbia Journalism Review, gli autori hanno confermato che l’accesso alle prigioni durante lo sciopero era più limitato del solito.

Nonostante le difficoltà, il livello di attivismo che questo sciopero ha generato è stato in qualche modo sorprendente. C’è stata una campagna social media con l’hastag #prisonstrike che ha generato diverse conversazioni online, un video promozionale, l’organizzazione di proteste davanti ad alcune prigioni e centri di detenzione, l’incoraggiamento e telefonare ai managers nelle prigioni, lettere di sostegno ai detenuti e lettere di protesta alle aziende che usano il lavoro poco remunerato nelle prigioni per i propri prodotti, tra queste Starbucks, Walmart, Victoria Secret, AT&T ed altre.

Lo sciopero ha anche generato una vasta copertura stampa sulle richieste dei detenuti sia negli USA, che all’estero (vedi esempi in The Guardian e Telesur). Si spera perciò che questa copertura abbia stimolato conversazioni sulle politiche del lavoro all’interno delle prigioni, il trattamento dei detenuti, il costo dei beni di consumo all’interno delle prigioni, il diritto di voto e la riforma delle condanne.

Ma dall’interno delle prigioni non si può fare più di tanto. La vera riforma del sistema penale americano va portata avanti da legislatori e cittadini di coscienza, sia a livello federale che statale.

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Beatrice Spadacini

Beatrice Spadacini

Beatrice M. Spadacini è una giornalista che ha lavorato per anni nella cooperazione internazionale e ha spesso scritto su tematiche sociali e politica estera. Il suo primo lavoro dopo l'università fu come capo ufficio stampa di Amnesty International in Italia, un'esperienza che ha influenzato la sua visione su come i diritti umani siano al centro di molte ingiustizie sociali. Dope avere vissuto in Kenya per sette anni, Beatrice è rientrata negli Stati Uniti insieme a sua figlia Zawadi, e ha lavorato per varie ONG e organizzazioni internazionali. Come giornalista, i suoi articoli sono apparsi su il Christian Science Monitor, Il Guardian, il Corriere della Sera, il settimanale East African e altri. Attualmente, Beatrice si sta concentrando su sistema giudiziario americano e le problematiche relative all'incarcerazione. Beatrice M. Spadacini is a DC-based freelance writer whose work has appeared in The Guardian, Sojourner magazine, iitaly, The Christian Science Monitor, AllAfrica.com, and other media outlets. She is also the manager of the Internews Health Journalism Network, a dynamic community of media professionals who cover global health. You can visit her website and follow her on Twitter @Bea_Spadacini.

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