Nelle mie molte vite, ho fatto anche la stilista. Avrei voluto fare la giornalista, ma ero troppo timida per chiedere al giornale della mia città di collaborare. Pensavo di non esser all’altezza. Mi ritrovai con un’impresa di produzione di abbigliamento quasi a mia insaputa.
Era l’inizio degli anni ’80, studiavo all’Università di Bologna giurisprudenza ed ero innamorata della moda. Mi imbattei in un laboratorio di pelletteria e mi feci fare un paio di borsette. Un giorno mi recai in una boutique di Trieste, dove risiedevo, indossando una di quelle borse.
Immediatamente la proprietaria la notò, osservò che era bellissima e mi chiese dove l’avessi acquistata. L’avevo fatta fare, risposi. Allora ne faccia anche per noi, disse. Me ne ordinò 35. Le feci fare, gliele portai e chiesi di essere rimborsata. La pagheremo a 60 giorni, data fattura.
Panico: io non sapevo di cosa parlasse. Non avevo mai visto una fattura in vita mia. Andai alla camera di commercio e mi iscrissi come ditta individuale: “Oh, bella – commentò l’impiegato – da quando in qua a Trieste si fanno borse?”, rivelando che l’iniziativa imprenditoriale non era nelle corde dei triestini, abituati peraltro a fare un sacco di soldi con il commercio al minuto, perché gli abitanti della Jugoslavia comunista venivano oltre confine a comprare perfino il caffè.
Avevo sempre lavorato durante l’università, perché volevo avere la libertà economica di andare dove desideravo, ma da allora trascorsi 10 anni massacranti. Facevo tutto io: ideazione, produzione e vendita di borse, percorrendo tutta l’Italia in auto da Est a Ovest e scendendo al centro, sino a Firenze. Per il Sud avevo un rappresentante. Partecipavo alle fiere per vendere all’estero, perfino in Giappone.
Disegnavo, compravo i materiali, andavo a Padova in fabbrica a portarli e a seguire la produzione con il cronometro in mano (pagavo il lavoro a minuto), ritiravo le borse, ripartivo, a casa eseguivo l’ultimo finissaggio per risparmiare (controllavo e pulivo sbavature di colla, bruciavo i fili, mettevo la carta), impacchettavo ed etichettavo le borse, le mettevo nello scatolone, lo spedivo, facevo la fattura.
Aspettavo 60 giorni il pagamento e poi il funzionario della banca mi chiamava sprezzante dicendomi che era andato insoluto. E mi chiedeva immediatamente l’importo che il mio debitore non aveva corrisposto. Ovviamente gravato del 28 per cento di interessi.
Venivo trattata come una delinquente se non portavo l’importo immediatamente. Quindi pagavo due volte e accumulavo debiti in banca. Il mio avvocato non è mai riuscito a recuperare un pagamento dovutomi dai miei debitori: i negozianti cambiavano ragione sociale della ditta, fallivano; insomma già allora si andava affermando l’uso di non onorare i crediti. Un Natale mi misi a letto con la febbre a 39.
Non sono diventata ricca e famosa, ma c’erano delle aziende di abbigliamento che allora diventarono grossissime: davano da eseguire il lavoro in nero nelle case e quando si trattava di produrre in fabbrica imponevano il prezzo, strozzando il terzista (il produttore che lavora per terzi). Quindi loro pagavano molto meno di me e soprattutto non pagavano il fisco. Evadevano.
In Lombardia c’erano molte donne che per arrotondare tenevano la macchina per fare le maglie di Benetton in cucina. Non credo che rilasciassero fattura. Quando io ho smesso, nel ’95, quelle aziende italiane già andavano a produrre nei Paesi dell’Est.Io cominciai a scrivere per Il Giornale, chiamata da Vittorio Feltri, affermando che bisognava che le nostre banche le sostenessero nell’internazionalizzazione, come facevano quelle tedesche.
Dieci anni fa entrai in un oleificio in Istria (Croazia) per fare un articolo: “Guardi – mi disse il produttore, aprendo una porta – queste sono le mie magliaie. Oggi è l’ultimo giorno di lavoro per queste donne, poi io farò solo olio: Benetton non vuole più produrre da noi perché una maglia gli costa troppo: un euro. In vendita va a 39 euro”. Rimasi basita.
Nella storia sfruttamento ed evasione hanno fatto ottenere grandi ricchezze. E’ tuttavia curioso come lo Stato italiano, non avendo i soldi per fare le autostrade, nel ’99 abbia concesso proprio ai Benetton di gestirle praticamente in regime di monopolio. Nella vita si paga sempre, prima o poi. E stavolta a causa del crollo del ponte Morandi, anche i Benetton – si spera – pagheranno il dovuto all’Italia e agli italiani.