
Ilaria Capua. Giulia Grillo.
Fra il Ministro della Salute che poteva essere, e quello che è stato, fra la ricerca d’avanguardia e la morte per morbillo sibilata come “realismo”, la Magistratura.
Come, più o meno, su tutto il resto: che poteva essere, e non è stato in Italia, negli ultimi quasi trent’anni. O che non doveva essere, e invece è stato.
E si dice Magistratura, per dire classe dirigente, qualificata dall’essere presunta portatrice di un’idea di uomo, di società: capace di distinguere, al fondo, se non il Bene dal Male, almeno il meglio dal peggio. Giacché, dopo la Grande Liquidazione del 1992-1994, altra reale, effettiva classe dirigente, non abbiamo avuta.
Ma questo specifico regresso, sostenuto, come gli altri regressi, dall’azione abusiva del diritto, richiede un maggiore sforzo descrittivo. Poiché si pone come una sorta di sinistro coronamento.
Cimento troppo arduo, specie mentre infuria la canicola.
Il corsivista si ferma. Invoca la poesia.
Proprio nel “secolo educatore”, il XVIII, ebbe avvio la conquista della pubblica salute. E di conquista bisogna parlare, perché è costata dolore, ha preteso dedizione, in ogni tempo deve affrontare avversità, ostilità.
In quel secolo, un italiano presto iscrisse il suo nome nella schiera dei molti che, da allora, avrebbero partecipato alla comune missione. Era il dott. Giuseppe Giovanni Maria Bicetti de’ Buttinoni.
Come nacquero i vaccini? Lungo la scia di un metodo empirico che, dal male contro cui si levò, fu detta “vaiolazione”.
Cos’era? Era la inoculazione di sostanza organica infetta, dopo aver inciso la cute. L’incisione, come dalla pianta che nasce su un tronco, venne presto detta “innesto”. Da questo, un passo per volta, i vaccini. E “Favoloso Innesto” la disse un altro italiano, un poeta: un uomo generoso e fiero contro ognuno che, avendo potere, giacesse “incipriato”: Giuseppe Parini.
Il dott. Bicetti de’ Buttinoni, fu uno dei maggiori sostenitori della vaiolazione, soprattutto attivo nella zona di Treviglio, in Lombardia, nella primavera del 1765, periodo in cui si manifestò una violenta epidemia di vaiolo. Per contrastare le opposizioni al suo impegno, scrisse anche delle Osservazioni sui risultati delle sue applicazioni, e le inviò ai più rinomati medici del tempo.
Parini, in quello stesso 1765, gli dedicò una delle sue Odi: L’innesto del vaiolo. Conquista, dicevo: solitudine, ostacoli. E infatti, il poeta comincia paragonando il medico al sommo degli scopritori: Cristoforo Colombo. Il quale, nonostante le “beffe dell’Europa” contro i suoi “sperati eventi”, affronta gli ignoti oceani, e vince i limiti imposti dalla natura e dal “vulgo”. È l’archetipo di un’impresa ancora intentata, ma razionalmente possibile, e che, conseguita, è capace di rivoluzionare il mondo, portando in Europa i tesori del nuovo continente.
Tuttavia, nulla sono questi tesori, rispetto alle autentiche ricchezze: una vita lunga e serena, e la bellezza, primo bersaglio del deturpante vaiolo. Sentiamo:
Più dell’oro, Bicetti, all’uomo è cara
Questa del viver suo lunga speranza:
Più dell’oro possanza
Sopra gli animi umani ha la bellezza.
L’uomo, però, tanto può essere luminoso e alacre, quanto sa essere inerte, oscuro, ingrato:
E pur la turba ignara
Or condanna il cimento,
Or resiste all’evento
Di chi ‘l doppio tesor le reca; e sprezza
I novi mondi al prisco mondo avvezza.
Questo disprezzare la conoscenza, che sempre è uno scoprire (“i novi mondi”); questo abbandonarsi al buio della gretta abitudine, (“al prisco mondo avvezza”); questo inveire contro chi si impegna nella ricerca (“Or condanna il cimento”); questo situarsi in pose rinunciatarie verso una comune e lieta novità (“Or resiste all’evento”), come si vede, sono coriacei e stratificati.
E universali:
Rise l’Anglia, la Francia, Italia rise
Al rammentar del favoloso Innesto.
La “turba”, il “volgo”. Ma chi sono? I più? Certo. Ma sempre, prima, i cattivi maestri:
E il giudizio molesto
De la falsa ragione incontro alzosse
La ”falsa ragione”; i sofisti di ogni tempo, i “recenti studi” di cui farneticano i nostri odierni governanti.
E quando soffia l’errore sostenuto dall’arroganza (“il giudizio molesto”), e questo, come un lenone, si pone allo sfruttamento dell’altrui sofferenza, gli occhi cessano di vedere, e la mentre, di intendere:
In van l’effetto arrise
A le imprese tentate…;
“…Tal del folle mortal, tale è la sorte:
Contra ragione or di natura abusa;
Or di ragion mal usa
Contra natura che i suoi don gli porge
Ed ecco “la falsa pietate”, che si accosta a la “falsa ragione”: il sentimento traviato all’intelletto confuso, cingendosi con la paura di madri sedotte contro il “ver”:
Ché la falsa pietate
Contro al suo ben e contro al ver si mosse,
E di lamento femminile armosse.
Naturalmente, solo chi non vuol vedere, non vede che a favore del “Favoloso Innesto” si spesero, un anno prima, Cesare Beccaria, autore del “Trattatello” “Dei delitti e delle pene”; e, un anno dopo, Pietro Verri, autore delle Osservazioni sulla tortura: svolte sul Processo agli “untori” milanesi, sulla loro persecuzione giudiziaria, la stessa riaffiorata, tre secoli e mezzo dopo, su Ilaria Capua. Non vede che i tre lombardi respirarono la stessa aria, affrontarono gli stessi nemici.
Perché l’uomo, le società, non solo in Italia, per farsi del male seguono sempre la stessa via: il potere del pregiudizio, il pregiudizio del potere. Il potere, sono le manette. Il resto, allora e ora, è complemento.
Ma il “flagello”, la “furia funesta”, furono sconfitti. Grazie alla ragione, al coraggio della ragione. Di cui “gli italiani”, a dispetto di pretestuose e grettamente contrarie identificazioni, dispongono come di un antidoto naturale. E così sarà.
Contro la nuova e vecchia “superstizion, del ver nemica”; sempre contro “il falso in trono” e “la viltà potente”.