L’aria a Ventimiglia è calda, carica di umidità. Il cielo è coperto di nubi, dalle quali, di tanto in tanto, fa capolino un raggio di sole. Ventimiglia è una città di frontiera, e, come tale, è ricca di storie da raccontare. Storie di speranza, ma anche di dolore, sacrificio, qualche volta fallimento. Se le trascinano dietro come fardelli tanti esseri umani, mentre camminano sui marciapiedi del quartiere delle Gianchette, la parte meno turistica della città ligure: il loro sguardo è fisso a terra o pietrificato davanti a sé. Si trascinano lungo il grande viadotto che porta al fiume Roja, passeggiano nell’area industriale dove sorge il campo della Croce Rossa, lontano dal centro e dagli sguardi dei residenti. Qualcuno sosta anche sulla spiaggia sassosa nei pressi del punto in cui il fiume Roja si unisce alla distesa del mare. Poco lontano, sventola la bandiera italiana, e su una panchina di pietra spicca la scritta “Only Locals”.



Provengono il più delle volte dall’Africa subsahariana, giunti a Ventimiglia dopo aver vissuto l’inferno del deserto e poi della Libia. Il loro viaggio li ha condotti fino alla frontiera nordoccidentale dello Stivale, da cui vorrebbero raggiungere la Francia, e magari altri Paesi europei. Ma la frontiera è chiusa, militarizzata. Alcuni di loro, a seguito dell’operazione di “alleggerimento delle frontiere” voluta dall’allora ministro dell’Interno Angelino Alfano nell’estate 2016, sono stati già rispediti in alcuni centri di accoglienza del Sud Italia. I più coraggiosi non si sono arresi, e sono tornati alla frontiera. Ma attraversarla è sempre più difficile, e pericoloso.
È proprio camminando lungo la strada asfaltata che, dal Campo Roja, porta verso il centro di Ventimiglia che incontro diversi migranti. Tutti uomini, in prevalenza africani, si spostano singolarmente o a piccoli gruppi. I loro occhi nascondono esperienze troppo grandi e dolorose per la loro giovane età. Molti hanno poco più di 20 anni, qualcuno anche meno. Quando mi avvicino a due ragazzi e chiedo di scambiare qualche parola, rispondono con gentilezza. Il più loquace, Axmed, assicura di non voler tentare la via della Francia: “No, voglio stare in Italia e lavorare qui. Sono qui per rinnovare i miei documenti”, assicura. “Ho visto e incontrato tante persone, e ognuna ha una storia diversa: c’è chi vuole andare in Inghilterra, chi in Francia, chi in Germania. Io voglio solo stare qui e lavorare onestamente”. Non sei preoccupato per la nuova situazione politica italiana?, gli chiedo. “No”, risponde sicuro. “Ho vissuto in molti posti, e ho conosciuto molti europei. So come comportarmi: sono un giovane uomo, e quando mi reco in posti nuovi, vado subito al centro di accoglienza locale”, racconta, sintetizzando orgogliosamente il fardello di esperienza che si porta sulle spalle. Axmed non teme neppure per i suoi compagni stranieri, per ora: “Non ho ancora visto accadere nulla di diverso dal solito”. Della sua Somalia ricorda le violenze, la guerra civile. “Nel 1992 la mia famiglia è scappata, ci siamo rifugiati in Etiopia, dove abbiamo vissuto nei campi, e poi mi sono spostato in tanti posti diversi nella mia vita: ecco perché conosco molte lingue”, racconta. Prima di arrivare in Italia, è rimasto alcuni mesi in Libia. Li sintetizza con due parole: “prison” e “tough”, e in mezzo a questi due termini si spalanca l’abisso dei ricordi. “Sono scappato qui in Europa per avere una vita migliore. Dio è grande!”. L’amico di Axmed, che non parla inglese, è eritreo, e dichiara, con l’aiuto del compagno, di voler raggiungere la Germania, dove vive sua sorella. In passato è già stato in terra teutonica, ed ora vuole tornarci: ha già provato a passare il confine francese e la polizia l’ha respinto, e a breve farà un nuovo tentativo.


Abul Khayr è giovanissimo e ha uno sguardo dolce. Cammina da solo, trascinando le ciabatte consumate sull’asfalto. Viene dal Sudan, che, ci tiene a specificare, “con il Sud Sudan è in realtà un unico Paese”, quasi a voler esorcizzare i segni sanguinosi del conflitto rimasti cristallizzati sulla cartina geografica. “So bad” è come definisce la situazione nel suo Paese, due parole e un eterno e insostenibile sottinteso. Abul Khayr è in Italia da due anni e a Ventimiglia da un mese e sei giorni, e sogna di raggiungere la Francia. Anche lui è già stato respinto dalla polizia di frontiera, ma, afferma, “se ne avrò la possibilità ci proverò di nuovo”. Ad ogni domanda, il giovane ripete come un mantra “No problem”, quasi a voler sventolare a parole, costantemente, una bandiera bianca. Lo fa anche quando gli chiedo perché non vuole stare in Italia, per poi sintetizzare: “Voglio solo trovare pace”. Il ragazzo mi fa capire di aver vissuto due anni difficili qui, nel Belpaese, anche abbandonato in strada, ma quando gli chiedo della nuova situazione politica in tema di migranti, non risponde e cambia rotta: “Gli italiani sono un grande popolo. Molti di loro ci hanno aiutato. Se avessi un modo per ringraziarvi, vi ringrazierei”. Nel cuore e negli occhi scuri di Abul Khayr è rimasta una cicatrice più profonda delle altre, che pare riaprirsi quando gli chiedo della Libia. “Sono stato lì un anno e un mese”, racconta, con un sorriso paradossale. “Sono arrivato lì tre giorni dopo aver lasciato il mio Paese”, prosegue, e ricorda un periodo iniziale di lavoro, duro, fatto anche di botte e ricatti, e poi sei mesi di prigione, ancora più terribile. “Sono scappato da lì”, conclude sorridendo di nuovo, un sorriso carico di dolore.
Mentre parlo con queste persone, e ascolto le loro storie, nel Mediterraneo ha luogo l’ennesima strage. La nave della Ong spagnola Proactiva Open Arms, insieme a diverse organizzazioni colleghe al centro di una tenace campagna di delegittimazione, ha cercato di soccorrere un’imbarcazione a 80 miglia dalla Libia, accusando la Guardia costiera di Tripoli di omissione di soccorso. Localizzati una madre e il suo bambino cadaveri, sopravvissuta una sola donna, sotto shock. Il video circola sui social network, ed è straziante. Parla della tragedia di tanti esseri umani reietti, di un’Italia – un tempo Paese di Mare Nostrum – dove i porti sono chiusi a chi salva vite in mare, e di un’Europa ancora indifferente.

Un anno fa di questi tempi, a Ventimiglia, il centro di accoglienza “informale” per donne e bambini messo in piedi da don Rito Alvarez, presso la Chiesa delle Gianchette, stava per chiudere per decisione della Prefettura e del Comune. Dell’attivismo di don Rito è rimasto un cartello appeso al cancello, che annuncia l’installazione “La Venere degli stracci”, opera dell’artista Michelangelo Pistoletto e simbolo delle migrazioni, rimasta in esposizione fino al 20 giugno e che si può ancora scorgere, abbandonata, dalla strada. Don Rito è un prete “militante”, uno che, originario del Catatumbo, regione della Colombia, prima di arrivare a Ventimiglia ha creato una fondazione per recuperare i bambini sfruttati nelle piantagioni di coca. Divenuto parroco della città ligure, si è schierato in prima linea per l’accoglienza. A fine aprile, però, la notizia dell’imminente trasferimento, per occuparsi delle parrocchie di Soldano, San Biagio, Perinaldo. Alla stampa che gli chiedeva, nei mesi passati, se si trattasse di un allontanamento “punitivo”, il prete rispondeva: «Non lo so. Il vescovo me lo ha chiesto e io ho ubbidito. Sia fatta la volontà di Dio». In effetti, sullo smantellamento del centro informale delle Gianchette, molto aveva pesato il disagio manifestato dai residenti del quartiere, disagio che – mi aveva detto lo scorso anno la vicesindaca Silvia Sciarra – la politica e le istituzioni hanno il dovere di tenere in considerazione. Eppure, a giudicare da quello che è successo dopo, risulta difficile non riconoscere il contributo della Chiesa di Sant’Antonio nell’evitare che il diffuso disagio sociale tra i migranti si traducesse in situazioni ancor più difficili da gestire per l’intera comunità.

L’esperienza delle Gianchette era iniziata il 30 maggio 2016 un po’ per caso: “Quel giorno, circa 300 persone erano rimaste senza un luogo dove poter sostare e rifocillarsi, e, grazie all’iniziativa del Vescovo e di don Rito, erano stati accompagnati alla Chiesa di Sant’Antonio”, mi spiega Serena Regazzoni, operatrice della Caritas locale. Un’accoglienza inizialmente organizzata nella Chiesa stessa, poi anche all’esterno e nei cortili, “fino ad arrivare ad ospitare più di 1000 persone”. A circa 40 giorni dalla sua apertura, però, nel luglio 2016 quel campo era stato parzialmente chiuso, e i migranti uomini erano stati interamente trasferiti nel Campo Roja, gestito dalla Croce Rossa, aperto proprio in quei mesi.

La Chiesa è rimasta però operativa nell’accoglienza di donne, bambini e persone vulnerabili per più di un anno, fino al 14 agosto 2017. Gli arrivi, nel frattempo, hanno continuato a registrare numeri piuttosto importanti: “Fino almeno al febbraio 2018, abbiamo registrato presenze abbastanza consistenti, almeno 200 persone quotidianamente accedevano ai nostri servizi”, racconta Serena. Tra il dicembre 2017 e i primi mesi dell’anno successivo, il numero dei sudanesi – nei mesi precedenti gruppo etnico più numeroso – è leggermente diminuito, “mentre sono aumentate notevolmente le presenze degli eritrei”. Nei mesi invernali, è giunto anche un numero elevato di donne e bambini, molti dei quali hanno dormito sotto il viadotto anche nei giorni più freddi della stagione.

La ragione non è quella che si potrebbe facilmente immaginare: non tanto un sovraffollamento del Campo Roja, cioè, quanto il timore dei migranti, a ben vedere infondato, che le procedure di identificazione e sicurezza effettuate al centro della Croce Rossa potessero pregiudicare la loro intenzione di fare richiesta d’asilo in un altro Paese che non sia l’Italia. In realtà, a tutti i migranti che sbarcano sul territorio nazionale vengono fin da subito prelevate le impronte digitali; ma tant’è. Non solo: “Il Campo Roja è piuttosto distante dal centro di Ventimiglia e dalla frontiera, che loro vogliono attraversare”, spiega l’operatrice Caritas. “Inoltre, è presidiato costantemente dalle forze dell’ordine”.
Il risultato, dunque, è stato un riaffollarsi del viadotto, dove, nell’aprile 2018, la Prefettura ha disposto uno sgombero. “Non è stato chiamato così, ma lo è stato nei fatti”, aggiunge Serena. “Hanno ripulito tutta l’area, in cui si era creata una situazione difficile da gestire, caratterizzata da punti di ristoro, e attività anche illegali, come spaccio e sfruttamento della prostituzione”. Tra aprile e maggio, i numeri sono calati notevolmente, fino a giugno, quando sono tornati a crescere con più di 250 arrivi in alcuni giorni, di nuovo prevalentemente di sudanesi. I trasferimenti verso il Sud Italia, però, continuano: proprio nei giorni scorsi, diversi migranti sono stati portati a Crotone, probabilmente anche tra coloro che alloggiavano al Campo Roja.

I controlli alla frontiera, poi, rigorosamente militarizzata, sono costanti. “La società francese che gestisce la rete ferroviaria (Sncf – Ndr) mi ha riferito che un numero elevatissimo di migranti che viene intercettato in territorio francese, almeno 600 persone ogni settimana, utilizza il treno, con le modalità più assurde e pericolose”. Proprio per questa ragione, la compagnia ha da alcuni mesi iniziato una campagna di sensibilizzazione – “Protect you life” – per informare i migranti dei rischi della strada ferrata, dove molte persone hanno perso la vita. Lo scorso giugno, la Sncf era assurta all’onore delle cronache a seguito della denuncia del deputato di Forza Italia Giorgio Mulé, che accusò la società di aver ingaggiato alcune guardie armate di una società privata italiana, in modo da evitare che i migranti potessero salire sui treni diretti oltralpe.

“Il problema grosso è anche la presenza di passeur sul confine”, spiega l’operatrice Caritas. “Pare che una sessantina siano stati arrestati o comunque ci siano delle indagini in corso”. I migranti si affidano a loro per avere informazioni su come passare la frontiera e, dietro pagamento, tentano l’attraversamento spesso chiusi per lunghe ore nelle sale macchine dei treni, dove passano i cavi dell’alta tensione. “Non c’è possibilità di aprire le porte dall’interno: vengono quindi ritrovati in Francia alla sera, spesso in stato di grave disidratazione o addirittura in fin di vita”.
Quando le chiedo se, con il cambio di Governo, è possibile avvertire più preoccupazione tra i migranti, l’operatrice Caritas non ha esitazioni: “Sicuramente”, risponde, “loro sanno tutto. Sanno cosa succede, sanno che il clima è cambiato, lo avvertono sulla loro pelle ogni giorno. Lo vediamo anche noi quotidianamente”, prosegue, “ perché le persone si sentono autorizzate a dire cose che prima, forse, avrebbero evitato di dire”. Serena, che ha visto passare davanti ai propri occhi storie drammatiche, una cosa ci tiene a sottolinearla: “Quelli che passano di qua non sono migranti economici”, ma persone che fuggono da dittature (come quella eritrea), guerre civili (come avviene in alcune regioni del Sudan e in Sud Sudan), persecuzioni. Non “clandestini”, in parole povere, per i quali, affermava il ministro dell’Interno qualche settimana fa, “la pacchia è finita”, ma uomini e donne in reale pericolo di vita. Qualche storia è più toccante e paradossale delle altre: “Abbiamo accolto un ragazzo afghano, che poi ha ottenuto lo status di rifugiato, ma che era stato espulso due volte dall’Inghilterra e rimpatriato in Afghanistan, pur essendo figlio di un talebano. Proprio per questo motivo, rischiava seriamente di essere ucciso visto che aveva rifiutato di seguire le orme paterne”. E se quel ragazzo ce l’ha fatta, è notizia di qualche giorno fa che un suo connazionale, di soli 23 anni, espulso dalla Germania e rimpatriato a Kabul, si è infine impiccato sotto il cielo della sua città. Un cielo da cui era fuggito, ma che, alla fine, non lo ha risparmiato.