L’odissea della nave Aquarius è stata più lunga e difficile del previsto. In navigazione verso la Spagna, nelle ultime ore l’imbarcazione è stata costretta, su indicazione della Guardia costiera italiana, a cambiare rotta, costeggiando la Sardegna a causa di condizioni meteorologiche avverse, con vento a 35 nodi e onde alte tre metri. Circa un’ottantina di persone hanno cominciato a soffrire di mal di mare.
Vamos a dar un poco de rodeo para buscar el abrigo de la costa de Cerdeña ¡La noche ha sido espantosa! Superado el Cabo de Bonifacio, entre Córcega y Cerdeña, línea recta hacia Valencia. Así las cosas llegaríamos el sábado por la noche. #los629delAquarius pic.twitter.com/RGSutrFjZW
— SaraAlonsoEsparza (@SAlonsoEsparza) June 14, 2018
Quella nave, ormai, la si può considerare un simbolo. Il simbolo di come la vita di tante persone nel mondo (non solo di quelle 629, in carne ed ossa, ostaggio della chiusura dei porti voluta dal ministro degli Interni italiano Matteo Salvini e dell’incapacità europea di far fronte a un problema comune) resti appesa al filo di una solidarietà impossibile, di un accordo introvabile, di politiche storte e inefficaci, ma difficilmente riformabili. E proprio mentre nel Mediterraneo si consumava questo dramma, e tra Parigi e Roma rimbalzavano condanne reciproche per le rispettive condotte in materia di migranti (tensioni a quanto pare sciolte, appena in tempo per la visita del premier Conte a Parigi), sui tavoli che contano si è posto un primo tassello per dare una risposta – politica – alla questione. Perché il Consiglio UE ha recepito come legge europea le sanzioni adottate dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU lo scorso 7 giugno, che hanno imposto un travel ban e un asset freeze a sei trafficanti di uomini che operano in Libia, quattro di nazionalità libica e due eritrea.
Un provvedimento storico: è la prima volta, infatti, che le Nazioni Unite impongono sanzioni contro trafficanti di uomini. Un risultato ottenuto grazie agli sforzi congiunti di diversi Stati europei, in primis l’Italia, che, nel corso della sua presidenza del Consiglio di Sicurezza lo scorso novembre, pose la questione del Mediterraneo al centro dell’agenda della comunità internazionale.
Una notizia positiva, dunque, che si staglia, tuttavia, su un quadro ancora drammatico. Perché, secondo i dati forniti dall’Unione Africana, sarebbero tra i 400 e i 700mila i migranti detenuti in Libia in condizioni disumane e soggetti a continui abusi dei più basilari diritti umani, in circa 40 strutture diffuse in tutto il Paese. E secondo il primo Global Study on Smuggling of Migrants, realizzato dall’Office on Drugs and Crime delle Nazioni Unite (UNODC), almeno 2,5 milioni di persone nel 2016 sono state vittime di trafficanti senza scrupoli.
Un numero impressionante, che ben fa capire l’urgenza della questione, e quanto la presa di posizione delle Nazioni Unite e del Consiglio europeo in proposito sia importante. Importante, ma non risolutiva. Perché l’ampiezza del fenomeno del traffico di esseri umani è una diretta conseguenza dell’assenza (o perlomeno dell’assoluta residualità) di politiche di migrazione legali e sicure per rifugiati e richiedenti asilo verso l’Europa. Qualcosa che sta a monte, addirittura, della tanto agognata riforma del regolamento di Dublino, naufragata (per ora) in Lussemburgo lo scorso 5 giugno a causa del mancato accordo tra i ministri dell’Interno dell’Ue. Ma andiamo per ordine.
Perché milioni di persone continuano a ricorrere a pericolosi trafficanti – peraltro a prezzi salati – per fuggire da situazioni di guerra e povertà e raggiungere l’Europa? Semplice: perché è praticamente l’unico modo, ad oggi, per farlo. Chiudere i canali illegali, quelli del traffico di esseri umani, senza contemplare l’apertura di vie sicure e alternative ai viaggi della speranza sulle carrette del mare è quantomeno un approccio inefficace alla questione, se non, semplicemente, un’ipocrisia. Non a caso se ne parla insistentemente non da mesi, ma da anni. Ultimamente, nel marzo 2017, era stato il Commissario europeo per l’immigrazione Dimitri Avramopoulos a chiedere alternative regolari a quelle offerte dagli smugglers, e non solo per i richiedenti asilo, ma anche per chi migra per ragioni economiche.
Certo: la sfida non è di poco conto, perché andrebbe totalmente ripensato il sistema, introducendo la possibilità che i migranti possano fare richiesta d’asilo perlomeno in Paesi terzi, prima, dunque, di raggiungere l’Europa. Più semplice a dirsi che a farsi: le difficoltà logistiche sono moltissime. Ad ogni modo, sarebbe questo l’argomento prioritario da affrontare. Perché in mancanza di canali legali, il contrasto al traffico di esseri umani – di per sé sacrosanto – si risolverà automaticamente nel contrasto all’immigrazione stessa, anche quella che avrebbe, a monte, tutti i requisiti per essere considerata regolare. Una situazione che in Italia è addirittura esasperata dalla legge Bossi-Fini, che favorisce l’automatica equazione “immigrazione = clandestinità”.
Ed è citando questo quadro che bisognerebbe rispondere al recente intervento in Aula del Senato di Matteo Salvini, intervento nel quale ha parlato di “morti di Stato”, riferendosi alle vittime dei flussi migratori. “Da padre di due bambini, non voglio che altri bambini vengano messi su un gommone e muoiano nel Mediterraneo perché qualcuno li illude che in Italia c’è lavoro e casa per tutti. Sono stufo”, ha detto. Caro ministro Salvini, i “morti di Stato” – come li chiama lei – esistono innanzitutto perché mancano vie legali e regolari con cui le vittime della guerra e della fame possano spostarsi. Senza quelle vie, qualsiasi tentativo (in sé condivisibile) di bloccare i trafficanti si risolverà nel tentativo di bloccare l’immigrazione stessa. E quei “morti di Stato”, come li chiama lei, moriranno di guerra e di fame. Rigorosamente a casa loro.