Un déjà vu: proteste da parte dei palestinesi, la mano dura e sanguinaria di Israele, e all’ONU fiumi di parole, mai in grado di schiudere la famosa “luce in fondo al tunnel”. Ve ne abbiamo già parlato in questi giorni, giorni di sangue, che hanno impressionato il mondo intero. E sempre all’ONU, proprio oggi, si è tornati sull’argomento, in occasione della conferenza stampa tenuta da Hanan Ashrawi, Executive Committee Member dell’OLP, capo del Dipartimento Cultura e Informazione e membro del Consiglio Legislativo Palestinese.
Una conferenza stampa in cui Ashrawi ha ribadito la condanna del pugno duro dell’esercito israeliano, e della costante strategia di annessione ed occupazione dei territori palestinesi, totalmente al di sopra – ha puntualizzato – del diritto internazionale. “Israele è l’unico Paese al mondo a non avere confini”, ha tuonato la rappresentante dell’OLP. E ha chiesto a una commissione indipendente di accertare i fatti degli ultimi giorni, visto che proprio Gaza – ha sottolineato – è stata per troppo tempo target della violenza israeliana.

Parole che non possono certamente lasciare indifferenti. Soprattutto perché, alla domanda della stampa se la soluzione dei due Stati sia ormai morta e sepolta, Ashrawi ha dimostrato, con la sua risposta, quanto quell’epilogo sia in effetti di difficilissima realizzazione, e quanto, dagli accordi di Oslo del 1993, la situazione si sia irrimediabilmente deteriorata. “Israele non può decidere da sola”, ha commentato, accusando duramente la rappresentante permanente USA all’ONU Nikki Haley di aver presentato, in Consiglio di Sicurezza, una rappresentazione dei fatti “totalmente distaccata dalla realtà”. Ashrawi ha voluto più volte e con forza sottolineare come quelle proteste, represse nel sangue da Israele, siano state del tutto spontanee e non manovrate da Hamas, come invece ha sostenuto il governo israeliano. “Il nostro popolo si muove molto più rapidamente della leadership”, ha peraltro osservato, sottolineando come, in questa protesta, sventolasse un’unica bandiera: quella della Palestina.
Di certo, di fronte a 61 civili uccisi dall’esercito di uno Stato democratico non si può rimanere silenti. È una realtà che non si può accettare, né giustificare. Ma si può riflettere: anzi, si deve riflettere. Riflettere sulla strategia fallimentare che ha portato la leadership palestinese ad inanellare nei decenni una lunghissima catena di fallimenti, senza mai essere in grado di giovare alla causa – agli occhi di chi scrive legittima – del popolo palestinese. E nelle ultime settimane, lo abbiamo visto più volte: prima, con i recenti commenti antisemiti del presidente Mahmud Abbas – il più grande regalo che i palestinesi avrebbero potuto fare a Netanyhau -, poi con una protesta pur legittima e comprensibile sul piano umano e sociale, ma che difficilmente avrebbe mai potuto sortire qualsivoglia effetto positivo.
Ripetiamo: la risposta di Israele è stata ingiustificabile. Ma quei sassi e quelle molotov, quei tentativi di scavalcare la recinzione che divide Gaza dai territori sotto il controllo militare di Israele a che cosa avrebbero mai potuto portare, se non alla cieca violenza israeliana? Non solo un sasso nulla può di fronte all’impeccabile equipaggiamento militare di Israele: può addirittura rischiare di offrire una giustificazione all’ingiustificabile comportamento israeliano. E questo, è evidente, non giova alla causa palestinese.
Durante la conferenza stampa, noi della Voce abbiamo chiesto ad Ashrawi proprio questo: per scuotere la coscienza del mondo – scuoterla definitivamente, senza più lasciare appello, senza lasciare spazio a “ma” e “però” -, non sarebbe stato più efficace una protesta pacifica, di migliaia di palestinesi seduti per strada, a cantare e danzare, per urlare al mondo i propri diritti? Un’immagine un po’ romantica, forse, ma non priva di illustri precedenti storici: chi non ha mai sentito parlare della Satyagraha del Mahatma Gandhi? Quella “resistenza passiva” adottata in seguito anche da Martin Luther King, Nelson Mandela e Aung San Suu Kyi, che ha mostrato tutta la sua forza dirompente – la forza della non violenza – nel raggiungimento dell’indipendenza da parte dell’India, ma anche nella vittoria di movimenti per i diritti civili in tante altre parti del mondo.
Sarebbe forse seguendo un calcolo strategico, più e oltre che un mero scrupolo morale, che i palestinesi dovrebbero ispirarsi a questi modelli. Soprattutto perché il loro rivale è uno Stato democratico – perlomeno, fino ad oggi -, che difficilmente potrebbe permettersi, davanti agli occhi del mondo, di reprimere nel sangue una grande e maestosa protesta del tutto non violenta, senza rischiare di suscitare una forte e compatta reazione internazionale. Per carità: secondo Ashrawi – che pure ha ritenuto condivisibile la nostra osservazione – nemmeno la non violenza fermerebbe l’aggressività israeliana, come non l’ha fermata, ha sostenuto, tante volte in passato. Ma la situazione resterebbe davvero la stessa se i palestinesi fossero in grado, condotti da una ferma leadership, di creare un grande e unitario movimento pacifico, in grado di smuovere la coscienza globale?
Noi della Voce avevamo fatto la stessa osservazione poco più di un mese fa, ad Haneen Zoabi, membro della lista araba al Knesset israeliano, intervenuta in un press briefing organizzato dall’United Nations Correspondents Association (UNCA). La sua risposta fu inizialmente simile a quella di Ashrawi, ma poi fummo sorpresi, in un secondo momento, di osservare il suo sincero interesse per la nostra riflessione. Una riflessione che scaturisce certamente dalla consapevolezza della legittimità delle rivendicazioni palestinesi, e dalla condanna dei metodi israeliani, ma anche dalla constatazione che sì, come disse il vecchio Abba Eban, ministro degli Esteri ai tempi di Golda Meir, i palestinesi non perdono mai l’occasione di perdere un’occasione. È così da oltre 70 anni, e la loro leadership continua a dimostrarlo.
D’altra parte, non è affatto casuale l’attenzione suscitata da Amos Harel, analista militare e autorevole firma di Haaretz, quando, non più di un mese fa, all’indomani della Marcia del Ritono, spiegò la cosiddetta “metamorfosi di Hamas”: “Sembra che Hamas, i cui attivisti sono stati coinvolti nell’organizzazione delle dimostrazioni e nell’esortare i partecipanti a scontrarsi con l’esercito vicino al recinto, abbia trovato un modo più efficace di creare attriti con le Forze di Difesa Israeliane che lanciare missili e compiere attacchi attraverso i suoi tunnel. I missili e gli attacchi terroristici in Israele comportano il rischio di condurre a una guerra che presumibilmente Hamas non vuole. Inoltre, il sistema Iron Dome fornisce una protezione ragionevole contro i razzi e la barriera ad alta tecnologia che Israele sta costruendo lungo il confine è progettata per rilevare e bloccare la costruzione di tunnel dalla Striscia di Gaza nel territorio israeliano. Gli eventi del venerdì hanno riportato Gaza in qualche modo all’attenzione della comunità internazionale, dopo mesi di indifferenza per una situazione sempre più degradata…”. In sintesi: la protesta non violenta è estremamente più efficace delle pietre e dei coltelli. Soprattutto in termini di impatto mediatico.
Poi certo, il rischio resta: ed il rischio è che Israele non si faccia intimidire dalle colombe della pace. Che il pericolo esista, e sia reale, lo ha in parte confermato la reazione dell’opinione pubblica israeliana proprio in occasione degli eventi legati alla Marcia del Ritorno. A questo proposito, il giornalista (israeliano) Gideon Levy aveva osservato: “L’uccisione di palestinesi è accettata in Israele in modo più leggero rispetto all’uccisione di zanzare. Non c’è niente di più economico in Israele del sangue palestinese”. Sacrosanto: possibile, però, che questa insensibilità sia almeno in parte motivata dalla strategia palestinese di cui abbiamo parlato fin qui? Resterebbe ugualmente insensibile, quella opinione pubblica, nel vedere migliaia di persone pacificamente sedute per strada, in sciopero della fame, bersagliate dalle armi dell’esercito di Tel Aviv? La domanda è certamente aperta. Ma resta inspiegabile perché, visti i 70 anni di insuccessi, di occasioni mancate e di strategie-kamikaze, la leadership palestinese, chiamando a raccolta il proprio popolo, si ostini a non considerare di fare almeno un tentativo.