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Dal Mediterraneo a Bardonecchia: se aiutare i migranti è un reato di solidarietà

Mediterraneo, Bardonecchia, Ventimiglia: lì l'Europa si infrange di fronte al dramma dei migranti. Criminalizzando la solidarietà

Giulia PozzibyGiulia Pozzi
Dal Mediterraneo a Bardonecchia: se aiutare i migranti è un reato di solidarietà

Agenti della polizia di dogana francese a Bardonecchia, 31 marzo 2018. ANSA/ALESSANDRO DI MARCO

Time: 7 mins read

Tra i primi pensatori della civiltà occidentale che riconobbero all’altro lo status di essere umano – il diritto, inalienabile, a essere “qualcuno” -, fu lo storico greco Erodoto. Parlando di lui, Ryszard Kapuściński – giornalista polacco autore di grandi reportage, e vero codificatore del concetto di “altro” nel giornalismo -, disse che, per l’autore delle Storie, la xenofobia era “la malattia di gente spaventata, afflitta da complessi di inferiorità e dal timore di vedersi riflessa nello specchio della cultura altrui”. Può forse essere d’aiuto rileggere quanto accaduto negli ultimi giorni, sul confine tra Italia e Francia, nei pressi di Bardonecchia, alla luce di queste parole. Parole antiche, ma drammaticamente attuali. E solo il fatto che alcuni cronisti, a buon diritto, abbiano definito Bardonecchia la “nuova Lampedusa” dimostra come la storia sia fatta di corsi e ricorsi, e come difficilmente gli uomini riescano a trarne insegnamenti di vita.

Ma cosa è accaduto a Bardonecchia? Tutto è iniziato la notte del 9 febbraio scorso, quando Destinity, migrante 31enne con un bimbo in grembo e un linfoma nel petto, tenta disperatamente di raggiungere la Francia insieme al marito, che in Italia – dove avevano fatto domanda di asilo – aveva perso il lavoro. In Francia vive la sorella di Destinity, alle cui cure la donna, consapevole di non avere molta vita davanti a sé, intende affidare il suo piccolino. Destinity è morta pochi giorni fa in sala parto, al Sant’Anna di Torino – dove è rimasta ricoverata per oltre un mese -, dopo aver dato alla luce Israel. Il calvario degli ultimi giorni è stato aggravato dal respingimento delle autorità francesi, che, non badando alle condizioni della giovane donna, l’hanno scaricata come un pacco postale alla stazione di Bardonecchia, dove i gendarmi d’Oltralpe sono soliti abbandonare al proprio destino tutti i migranti che tentano la traversata. Alla stazione, l’hanno lasciata: neppure in ospedale. A lei, hanno negato lo status di essere umano, il diritto a essere qualcuno, che persino Erodoto, 2000 e passa anni fa, riconosceva ai persiani, nemici acerrimi dei greci.

Quella di Destinity è una storia esemplare, destinata – per la sua straordinaria drammaticità – a diventare un simbolo di quanto accade ogni giorno nei pressi di Bardonecchia, al confine tra Italia e Francia. La gendarmeria francese pratica quotidianamente respingimenti dei migranti che tentano l’attraversamento dei confini, e la legge europea è dalla loro parte. Per il trattato di Dublino, infatti, il migrante è destinato a restare nel primo Paese sicuro raggiunto, e fare lì richiesta d’asilo: e dal 2015 a questa parte, l’acuirsi della crisi migratoria ha reso i francesi sempre più intransigenti nei confronti di chi, sbarcato in Italia sui barconi della speranza, guarda all’Oltralpe come a un luogo più desiderabile e più accogliente del nostro Paese. Nelle ultime ore, però, i francesi si sono spinti oltre: non solo ricacciano indietro i migranti indesiderati, ma hanno fatto addirittura irruzione nel presidio sanitario umanitario di Bardonecchia, un locale messo a disposizione delle attività umanitarie da parte delle Ferrovie dello Stato, in collaborazione con il Comune, la prefettura di Torino, e le associazioni Rainbow4Africa e Recosol.

Il fattaccio è avvenuto venerdì sera, quando un giovane nigeriano era in viaggio verso Napoli, con regolare biglietto. Partito da Parigi, è stato individuato poco prima della frontiera italiana. Quindi, la gendarmeria gli ha imposto di scendere alla stazione di Bardonecchia: e per ragioni ignote, visto che il poveretto disponeva di regolare biglietto. E benché la stazione di polizia italiana si trovasse a cento metri dalla saletta della stazione ferroviaria, i militari francesi non hanno avvertito i colleghi. I poliziotti italiani sono arrivati solo dopo essere stati avvertiti dai volontari. I testimoni hanno variamente descritto l’aggressività usata dai militari francesi, sia nei confronti del nigeriano – costretto a urinare dentro una provetta, e l’esame ha dato esito negativo -, sia verso i volontari presenti nel presidio di Bardonecchia, nel quale i militari hanno fatto inspiegabilmente irruzione.

Intorno a questo episodio, si sta consumando una vera e propria crisi diplomatica: l’Italia ha addirittura convocato l’ambasciatore francese alla Farnesina e chiede spiegazioni alla Francia. Le azioni di Parigi non sono giustificabili da nessun punto di vista: se non da quello umano, neppure sotto il profilo degli accordi internazionali. Al contrario, c’è chi dice si tratti di una vera e propria provocazione: un avvertimento mandato dal governo di Parigi a chi opera ai confini per la difesa dei diritti dei migranti.

D’altra parte, quanto accade a Bardonecchia può sollevare – purtroppo – ben poco stupore. Si è parlato di una nuova Lampedusa, ma io la definirei più propriamente una nuova Ventimiglia. Nel ridente borgo ligure al confine con la Francia, ogni anno – con l’aumento estivo dei flussi migratori – si consuma il più palese e autentico fallimento dell’accoglienza europea. Mi recai a Ventimiglia lo scorso agosto, per verificare con i miei occhi quello che in molti raccontavano, e io facevo fatica a credere. Ho incontrato tanti ragazzi, prevalentemente dall’Africa subsahariana, che quasi ogni giorno tentavano di valicare il confine, e quasi ogni giorno venivano respinti in Italia dai militari francesi. Qualcuno di loro si trovava nel Campo Roja, il centro gestito dalla Croce Rossa in una zona industriale poco frequentata della cittadina; molti altri con cui ho parlato, invece, vivevano sotto il grande viadotto in prossimità della Chiesa delle Gianchette, e al Campo Roja proprio non volevano andarci: in primis, per paura di essere identificati, e dunque di perdere la propria occasione di fuggire in Francia. Una paura irrazionale, in realtà, visto che le impronte vengono prelevate fin dall’inizio a chiunque sbarchi sul nostro territorio; ma tant’è. Proprio lì, alla Chiesa di Sant’Antonio alle Gianchette, don Rito Alvarez, prete di strada attivissimo per l’accoglienza, aveva messo in piedi un coloratissimo centro per ospitare donne e bambini, ed evitare loro situazioni di promiscuità al Campo Roja. Una bellissima esperienza di solidarietà destinata a finire di lì a poco: un po’ per quella che il Comune definiva un’“inadeguatezza degli spazi” ad accogliere tante persone, ma soprattutto a causa delle lamentele dei residenti del quartiere delle Gianchette – in gran parte giunti lì nella grande emigrazione dal Sud degli anni Cinquanta e Sessanta -, che più volte hanno denunciato rumori e disagi.

E quel che è peggio – e ciò di cui meno si parla – è che, in luoghi come Ventimiglia, si consuma un’emergenza silenziosa ma gravissima: quella delle morti di confine. Morti che talvolta possono essere classificate come incidenti (è il caso di alcuni migranti rimasti fulminati nascosti sul tetto dei treni), ma altre volte vi è il forte sospetto che non lo siano: me lo confermò, ad agosto, la vicesindaca di Ventimiglia Silvia Sciarra, parlandomi del caso di un ragazzo respinto dalla polizia francese e investito da una macchina in autostrada, ma che, secondo alcuni testimoni, sotto quell’auto sembrò essersi buttato volontariamente. Non un caso peregrino: perché lo stress psicologico dei continui respingimenti, del sentirsi abbandonati a se stessi, senza patria, non voluti ovunque si vada è notevole. E qualcuno ne rimane semplicemente sopraffatto.

Le tante vicende di Ventimiglia, la storia del ragazzo nigeriano a Bardonecchia, quella di Destinity o un’altra vicenda ancora – simile, ma dai contorni ancor più paradossali – che riguarda una guida alpina che rischia una condanna fino a cinque anni per aver soccorso una migrante all’ottavo mese di gravidanza, hanno tutte qualcosa in comune. E cioè l’impressione che, da un po’ di tempo a questa parte, cominci a profilarsi una sorta di “reato di solidarietà”: il tentativo delle autorità di tagliare le gambe a chi ha a cuore – per prima cosa – i diritti umani di una categoria debole ed emarginata come quella dei migranti. Con la conseguenza che iniziative utilissime dal punto di vista umanitario – come quella di don Rito a Ventimiglia, quella di Rainbow4Africa a Bardonecchia, o quella della coraggiosa guida alpina che ha salvato la vita a una migrante – vengono inesorabilmente limitate o ostacolate.

Non a caso, di reato di solidarietà si parla anche in relazione al sequestro della nave della ong spagnola Proactiva Open Arms, bloccata da giorni nel porto di Pozzallo, in Sicilia, per via dell’indagine del procuratore di Catania Carmelo Zuccaro – che già quest’estate aveva fatto parlare di sé per aver suggerito che alcune ong potessero essere colluse con i trafficanti di uomini, salvo poi non aver portato alcuna prova a sostegno della “bomba mediatica” appena sganciata -. Questa volta, Zuccaro ha accusato il capitano della Open Arms (una delle poche ong ad aver firmato il codice di condotta imposto dal Governo alcuni mesi fa) di non aver voluto consegnare i migranti salvati dal naufragio alla Guardia costiera libica. Il personale della Open Arms ha raccontato di aver subito una vera e propria aggressione, con tanto di minacce di morte, dai libici che sostenevano che Tripoli fosse responsabile delle operazioni di salvataggio in quella zona. Per Open Arms, tuttavia, non era così. La nave si trovava infatti in acque internazionali, dove la Guardia costiera libica non poteva dare ordini, e dove il diritto del mare parla chiaro: la responsabilità di portare in salvo i naufraghi è di chi soccorre. Senza contare che numerose inchieste hanno acclarato diversi episodi di collusione tra alcuni rami della Guardia costiera libica e i trafficanti (curioso voler sconfiggere il traffico di esseri umani appoggiandosi a un’istituzione fino a ieri collusa in esso), e che, per il diritto internazionale, respingere dei profughi (o aspiranti tali) in un Paese dove il rispetto dei diritti umani non è garantito – come la Libia, nota ormai per i suoi campi-lager – è contrario alla Convenzione di Ginevra. Non si capisce insomma di cosa sia accusata esattamente la Open Arms, se non, appunto, di un reato di solidarietà.

A monte di tutto ciò – è evidente – c’è il fallimento dell’Europa di fronte al dramma dei migranti. L’Europa fallisce ogni giorno nel Mediterraneo, ai confini tra Italia e Francia o al Brennero. L’aggressività della gendarmeria francese nell’assicurarsi che i migranti non lascino l’Italia può essere una delle spiegazioni dell’esito delle elezioni italiane: come stupirsi del fatto che i cittadini del Belpaese siano i pochi europei rimasti più scettici nei confronti dell’Unione dopo la Brexit? A tutto ciò si aggiunga una buona dose di ipocrisia. Perché si fa un gran parlare di una riforma del regolamento di Dublino – annunciata già nel 2015, e oggi al centro di continui dibattiti a Bruxelles -, ma ci si domanda se, date queste premesse, potrà mai davvero vedere la luce.

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Giulia Pozzi

Giulia Pozzi

Classe 1989, lombarda, dopo la laurea magistrale in Filologia Moderna all'Università Cattolica di Milano si è specializzata alla Scuola di Giornalismo Lelio Basso di Roma e ha conseguito un master in Comunicazione e Media nelle Relazioni Internazionali presso la Società Italiana per l'Organizzazione Internazionale (SIOI). Ha lavorato come giornalista a Roma occupandosi di politica e affari esteri. Per la Voce di New York, è stata corrispondente dalle Nazioni Unite a New York. Collabora anche con "7-Corriere della Sera", "L'Espresso", "Linkiesta.it". Considera la grande letteratura di ogni tempo il "rumore di fondo" di calviniana memoria, e la lente attraverso cui osservare la realtà.

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