Ci sono molti modi di guardare, oggi, al “Processo alla DC”, voluto dalle Brigate Rosse. Avviato con la Strage di Via Fani, il sequestro di Aldo Moro, e di cui, in questi giorni, ricorre il quarantennale. A parte certa superstizione pseudostoriografica, inappagata evocatrice di “verità nascoste”, il modo più diffuso, e più longevo, è stato quello che potremmo chiamare della “alterità”. L’unico capace di serissime propagazioni: noi, gli italiani, una cosa; loro, i brigatisti, un’altra. E tuttavia, Sciascia, già in quei giorni, aveva ammonito: “E diciamola francamente: non fosse stato per quei cinque morti, per quei cinque che “si guadagnavano il pane”, facendo scorta all’onorevole Moro, l’opinione sarebbe stata univoca: ma per tutt’altro verso. E’ terribile, lo so: ma va detto. Per capire” (Lettera di Sciascia a Luigi Compagnone, su La Stampa, marzo 1978).
Ogni azione, anche la più efferata e, anzi, proprio la più efferata, dunque, ha un motivo. E il motivo, ciò che muove, essendo sentimento del reale, può accomunare: talvolta, più di quanto piaccia ammettere. Come si presenta un motivo, come riconoscerlo? Dalle parole in cui si incarna. Strage e sequestro, furono l’azione; “Il Processo”, il motivo. L’una, di pochi, l’altro, di molti. Di quanti? Di molti. Di moltissimi. Le parola “Processo”, come “motivo”, anche delle BR, sembra quasi vaticinata dallo stesso Moro: in un famoso discorso parlamentare: non a caso, diffusamente rievocato proprio in relazione ai “55 giorni”.
Fu il discorso tenuto in difesa del ministro Luigi Gui, per la vicenda Lockeed, nel marzo 1977. Si era levato contro “chiunque voglia fare un processo morale e politico…nelle piazze. Parlando, e solennemente, in nome di una radice umana, personale: “Intorno al rifiuto dell’accusa che, in noi, tutti e tutto sia da condannare, noi facciamo quadrato davvero”. E aggiungendo:“Quello che non accettiamo è che la nostra esperienza complessiva sia bollata con marchio d’infamia”. Ma se ne era registrata una resa unicamente partitica, di consorteria potente, che rivendica di essere al di sopra della legge: “E’ un discorso di estrema arroganza”, scrisse Camilla Cederna: sciorinando una moltitudinaria e presuntuosa sciatteria di giornata, sul volto di un uomo che interpretava una profonda complessità storico-politica (“Giovanni Leone”, Feltrinelli: curiosamente, questo volume, scritto ovviamente in precedenza, andò in libreria negli stessi giorni di Via Fani).
E’ noto che quella massificata parola-motivo, “Processo alla DC”, era stata pure avallata da una complessa anima di artista e di letterato, che l’assunse anzi, tre anni prima, come Opera propria: Pasolini. Un’ingombrantissima continuità, questa: fra “Il Processo” di Pasolini, che anche Sciascia aveva voluto fosse suo, e quello delle B.R. Per attenuare, per spiegare il conflitto di coscienza, il proprio e quello collettivo, sorto il 16 marzo (aveva già detto, a Le Nouvelle Observateur, nel Giugno 1978: “la sua morte ci mette tutti sotto accusa”), Sciascia, proprio in apertura del suo “L’affaire Moro” (finito di scrivere nell’Agosto 1978), richiama ancora una locuzione di Pasolini: “il meno implicato”. Moro, il “meno implicato” con quella che venne detta “la stagione delle stragi”. Con gli “altri” D.C. Eppure, ugualmente ritenuto (come da molti italiani) in una “enigmatica correlazione” con costoro.
Quale, l’enigma? Proprio la radice umana: quella che nei momenti “estremi”, prevale su ogni altro profilo. A quella radice Moro si era richiamato in difesa di Gui. Alla stessa radice si aggrapperà durante il suo rapimento. Ciò che, ai suoi occhi, rende “estremo” il momento è la pretesa, in Parlamento come nella Prigione del Popolo, di essere eliminati, in quanto uomini che agiscono politicamente: e dunque, per Moro, in quanto “cristiani”.
Non un enigma, allora, stringe Moro alla D.C., ma il suo essere cristiano: nella famiglia e nella dimensione personalistica. E che sempre in lui prevalse sull’astratta istituzione, sull’astratta legalità, come esplicitamente scrive a Cossiga il 29 Marzo, dalla “Prigione del Popolo”. Qualche anno dopo, Micromega e affini, perpetuando la “sintonia con gli umori del popolo” già espressa da Cederna, tradurranno quella dimensione personalistica con “familismo amorale”. Durante il sequestro, ad un certo punto, Moro definisce il suo annunciato eccidio “strage di Stato”. Con la “Fermezza”, scrive alla moglie, “si avalla il peggior rigore comunista, ed al servizio dell’unicità del comunismo. E’ incredibile a quale punto sia giunta la confusione delle lingue”.
“La linea della fermezza” è ideata dal P.C.I.: “il nuovo inquilino del potere”, secondo un’altra feconda immagine di Pasolini (riferita a Berlinguer e meno ricordata di quella sul “Processo”, o del suo “Io so”) che, in questo modo, inventa uno Stato: ma è un’invenzione sterilizzante. Questo Nuovo Stato, questa nuova-vecchia idea, si insinua nella D.C., snaturandola, e rendendola colpevole del suo stesso snaturamento: la “confusione delle lingue”, che abbandona la difesa della vita umana in favore dell’astrattezza legalistica. La Ragion di questo Stato, sorta nella impietosa durezza, diverrà “statolatria”. E stabile ragione del nuovo Potere: il Potere inquisitorio.
Il potere inquisitorio, però, una volta istituito, è insaziabile. Sciascia coglie le inquietudini suscitate dalla “fermezza”: sebbene sparute, in ogni tempo. E avverte che, opporre violenza di Stato a violenza contro lo Stato, è una strada senza sbocco: si può fare, ma solo “fino a quando, come rimedio, come salvezza, e salutata come salvezza da un popolo stanco e nauseato, non interverrà la fine della libertà” (La Sicilia, Agosto 1978). E’ la sua ragionata prefigurazione di Tangentopoli, e dei suoi inevitabili frutti politici di massa. Il seguito, lo vedremo.