E’ difficile capire come vada affrontato il Women’s International Day. Il 2017 è stato un anno decisivo per i diritti di genere, e si è concluso con un bilancio negativo nella lotta verso la parità. Sì, si parla “ancora” di lotta, perché il 2030 si avvicina, e l’Agenda degli obiettivi sostenibili non sta dando i frutti che avremmo sperato.
“Anche dove sono stati fatti progressi, questi sono stati fortemente disomogenei. E, a parte i trend nazionali …persistono… le significanti mancanze di donne e bambine che, anche all’interno dello stesso paese, stanno vivendo mondi totalmente diversi”, aveva dichiarato il 14 febbraio Phumzile Mlambo-Ngcuk, direttrice sudafricana di UN Women.
E l’ONU non è l’unico che mette fretta e urgenza al processo di emancipazione, che verrà raggiunta probabilmente in due secoli, secondo il Global Gender Gap Report 2017 del World Economic Forum. Addirittura, dice il report, “il progresso sta facendo marcia indietro”. Da una parte, c’è speranza per quei paesi come l’Islanda – che ha eliminato più dell’87% del gender gap -, che stanno investendo sull’equità sociale. Ma, globalmente, durante il 2017 i trend sono stati negativi.
Ma perché, se il traguardo è così tanto difficile da raggiungere, il femminismo continua ad essere comunemente ritenuto obsoleto? “La più grande sfida per i diritti umani al mondo”, l’ha definita il Segretario Generale dell’ONU Antonio Guterres nel suo discorso per la giornata mondiale della donna 2018. “Vorrei essere chiaro rispetto a questo: non è un favore alle donne. La parità di genere è un problema che riguarda i diritti umani, ma è anche negli interessi di tutti: uomini, bambini, donne e bambini. La disparità di genere danneggia noi tutti”. E pensare il contrario vuol dire alimentare il qualunquismo che è causa della perpetrazione dello status quo – lo stesso status quo che ha permesso il femminicidio di 114 donne, solo in Italia, solo nel 2017.
Particolarmente catastrofica e urgente è la situazione dove i diritti umani si trovano in uno stato generale d’allarme. Ci sono tuttora 49 paesi che non hanno alcuna legislazione sulla violenza domestica; 45 paesi che non hanno una legislazione specifica sul sexual harassment; 37 paesi che esentano gli stupratori dalla persecuzione penale nel caso in cui siano sposati, o si sposino dopo il fatto in questione, con la vittima.
Ci sono paesi, come l’Afghanistan, dove le donne non hanno il diritto di prendere decisioni nè per il loro presente nè per il loro futuro, dove non hanno accesso ai servizi primari, dove “si sentono abbandonate”. Ci sono paesi, dove tuttora sono presenti atroci pratiche di mortificazione del sesso femminile, quale la Mutilazione Genitale Femminile (MGF). E considerando che entro il 2030 più di un terzo delle nascite mondiali avverrà nelle 30 nazioni dove ancora persiste la MGF, milioni bambine in più rispetto al numero attuale, saranno esposte al rischio di subire tale ignominia.
Senza parlare, poi, delle vulnerabilità ulteriori che affliggono le donne nel mondo dell’asilo. Lo status di rifugiata, secondo il diritto internazionale, spetta indistintamente anche a donne e bambine che stiano scappando dalla violenza di genere, sia essa fisica, sociale o psicologica. Ma questa protezione si rivela in parte finta. I dati rivelano che il numero di richieste d’asilo approvate dai vari Stati è estremamente superiore per quanto riguarda gli applicant di sesso maschile; un po’ perché le vittime della violenza, che molto spesso avviene in casa, fanno fatica a raccontare gli abusi subiti, un po’ perché non vengono credute, un po’ perché non possono portare delle prove concrete ma, soprattutto, perché una volta arrivate ai centri accoglienza, a “proteggerle” e ascoltarle trovano una marea di agenti di sesso maschile, e poche di sesso femminile. Vengono messe in posti non adatti alle loro specifiche vulnerabilità. Esistono tanti report sulla situazione tragica che le rifugiate stanno affrontando, tanto in paesi poveri come la Grecia, quanto in Germania. E non solo in Europa; basti pensare al caso eclatante alle donne siriane obbligate ad avere rapporti sessuali con i volontari in cambio di cibo.
E non è solo una questione di accettazione o permanenza nei campi. Nel paese che le accoglie ci devono anche restare; e un report dell’UNHCR ha dichiarato che le bambine rifugiate hanno il 50% di probabilità in meno, rispetto ai loro compagni di sesso maschile, di continuare la scuola. C’è da sottolineare che negli ultimi 30 anni, nonostante le credenze comuni, a livello globale il numero di bambine (sul numero dei maschi) a cui viene impartita un’educazione primaria e secondaria ha continuato a crescere con velocità costante, e con velocità maggiore nei paesi che erano considerati fino a qualche anno fa “del terzo mondo”. Crescita che è però inesistente nei paesi d’accoglienza, rendendo anche l’integrazione un processo inefficace.
Nemmeno possiamo fermarci ai confini nazionali; anche all’interno di una stessa società le differenze tra disuguaglianze in termini di diritti e di benessere della vita sono estreme. Ad esempio, una bambina nata in condizioni familiari povere viene forzata a sposarsi in età prematura, smette di andare a scuola prima del tempo, partorisce in età prematura, soffre complicazioni durante il parto ed è vittima di violenza con una probabilità molto maggiore rispetto ad una sua coetanea cresciuta in una famiglia agiata e che si sposa ad un’età più avanzata.
La situazione è stagnante anche nei paesi “sviluppati”. Ancora, una donna su cinque è succube di violenza di genere fisica o psicologica. E’ inoltre più probabile che le donne svolgano dei lavori che le rendono più vulnerabili rispetto agli uomini (il lavoro in nero è più diffuso per il genere femminile), l’occupazione maschile rispetto a quella femminile è maggiore quasi del 50%, e per le donne è molto più difficile raggiungere posizioni manageriali. Questi sono alcuni dei dati più impressionanti, dati che non si possono più ignorare.
Nel 2017, abbiamo assistito a casi gravissimi, come lo scandalo Weinsein, che ha mostrato tutta la fragilità del percorso di emancipazione delle donne occidentali. Sì, perché anche il ceto abbiente viene colpito, soprattutto nel mondo dello spettacolo, ma non solo. Non sono mancati tanti altri colpi di scena – come la storia di Susan Fowler – che ci hanno fatto capire che la discriminazione è molto più complessa e che si dirama in molti altri campi, a partire dal settore dell’Hi-Tech, che resta ancora una roccaforte delle gerarchie aziendali di genere.
Ma se proprio dobbiamo trovare un lato positivo del 2017, ciò che è cambiato estremamente è la comunicazione tra le vittime, ma anche tra vittime e sostenitori/audience. Fino a qualche anno fa, il mezzo di comunicazione principale era la televisione, un passivo strumento “educativo” ma anche rafforzativo della cultura nazionale – o almeno, in Italia funzionava così. Il nostro Paese, infatti, è stato criticato più volte per i contenuti osceni durante trasmissioni e pubblicità; ma l’italiano medio, da dentro, non ci ha mai visto niente di male e ha continuato ad assorbire passivamente la sottomissione implicita della donna. E Lorella Zanardo, con Il corpo delle donne, l’ha spiegato bene.
Quest’anno, invece, come non era mai successo prima, i movimenti attivisti si sono mossi proprio attraverso nuovi mezzi di comunicazione, che non hanno più scopo informativo/passivo, ma funzionano attraverso le reti interpersonali che richiedono, per essere usate, una certa concentrazione. E’ per questo motivo che #MeToo ha avuto una risonanza straordinaria, arrivando a tutti e tutte, e includendo chiunque volesse raccontare la sua storia e leggere quella delle altre. L’informazione diventa così più istintiva e immediata. Tra le vecchie generazioni e le nuove si sta aprendo un divario notevole, e i giovani sono sempre più aperti all’uguaglianza civile e sociale, in maniera notevolmente superiore rispetto ai loro genitori e ai loro nonni.
E’ solo attraverso le nuove forme educative, pensiamo per esempio al famoso “Storie della buonanotte per bambine ribelli”, attraverso i social media e la sensibilizzazione che deriva da questi, che colpiscono sempre più bambine, ragazze e donne, certo, ma anche uomini – pensiamo al famoso aneddoto riguardo al marito di Susan Fowler – che questa giornata si riprende davvero il significato che merita, il significato di cui ha bisogno.
Anche a livello di Organizzazioni Internazionali si sta lavorando con efficacia per accelerare la velocità del progresso nell’ambito dei diritti di genere, che non sono solo importanti di per sé, ma rappresentano un aspetto cruciale per lo sviluppo sostenibile in tutti i campi e per la realizzazione della Agenda 2030. Non a caso, UN Women è stata una delle prime organizzazioni a lanciarsi sull’innovazione sostenendo l’attuazione di progetti che prevedono il Blockchain e che permettono la chiusura dei gap con più rapidità. Tuttavia, è innegabile che il loro approccio rimanga ancora estremamente diplomatico e formale, e a volte rischia di avere un impatto estremamente inferiore rispetto alle risorse che vengono impiegate: ha estremamente bisogno della sensibilizzazione di massa.
La strada da percorrere è ancora tanta, e la discriminazione è presente pressocché in ogni settore. “In questo momento cruciale per i diritti delle donne, è tempo che gli uomini appoggino le donne, le ascoltino e imparino da loro. La trasparenza e la responsabilità sono essenziali se vogliamo che le donne riescano a raggiungere il loro pieno potenziale e ci sollevino, nelle nostre comunità, società e economie”, ha continuato Guterres nel suo ultimo discorso, “sono fiero di essere una parte di questo movimento, e spero che questo continui a risuonare non solo dentro le Nazioni Unite ma nel mondo intero”.
Si può davvero continuare a dire che il femminismo è obsoleto? Oggi, 8 marzo, non è la “festa della donna”. Non c’è niente da festeggiare, e farlo significherebbe dedicare un solo giorno all’anno a riconoscere il ruolo fondamentale che il genere femminile occupa a livello di comunità, società, economia e politica, ma dimenticarsene il giorno dopo. Oggi è più propriamente la giornata della memoria di migliaia di donne cadute vittima della discriminazione, della celebrazione di altrettante donne che stanno scalando le gerarchie sociale nonostante i bastoni che vengono messi loro tra le ruote, e, infine, è la giornata della sensibilizzazione. Perché “dovremmo essere tutti femministi” ed è arrivato il momento di farlo sapere ai più scettici per rimboccarci, tutti insieme, le maniche. “Lasciateci dichiarare, forte e chiaro, che ‘il momento è arrivato'”, ha terminato Guterres.