“Razza bianca”. Cosa vi viene in mente a sentir parlare di “razza bianca”? Se vi trovate in Italia, da un paio di giorni a questa parte, non potrete che rispondere, di getto, facendo riferimento alle perlomeno avventate – ma da Bruxelles le hanno già definite “scandalose”– dichiarazioni del candidato governatore della Lombardia per il Centrodestra, Attilio Fontana. Il quale, facendosi forse trascinare dal clima incendiario da campagna elettorale, nelle scorse ore se ne è uscito dicendo che sì, gli immigrati che arrivano in Italia mettono a rischio “la nostra etnia, la nostra razza bianca”.
Che poi, se fosse solo una boutade da campagna elettorale, forse non varrebbe neppure la pena sprecare tempo e inchiostro per fare il punto su affermazioni che, oltre a commentarsi da sole, hanno commentato un po’ tutti: dal Pd ai Cinquestelle, passando per il Centrodestra. Qualcuno, Fontana, ha avuto pure l’ardire di difenderlo, come Matteo Salvini, che sa bene che la gran parte dei suoi sostenitori tanto più apprezza sparate di questo genere quanto più sono aggressive e verbalmente violente. Ma il punto è proprio questo: qui non si tratta solo di una boutade, di una mera castroneria sparata per fare un po’ di chiasso politico. Anche perché alle elezioni, di fatto, mancano ancora più di due mesi: e se queste sono le premesse, chissà come ne usciremo, alla fine, da questa campagna elettorale. Il punto, qui, è che la politica ha capito che su questi toni, le elezioni, si possono persino vincere. Un po’ come è accaduto, nientemeno, al Presidente degli Stati Uniti in persona, che, non più di qualche giorno fa, ha definito con assoluta nonchalance “shithole” Paesi come Haiti, El Salvador e Stati africani da cui provengono molti immigrati.

E che non fosse solo un “lapsus”, una “espressione poco accorta”, come poi l’ha definita lo stesso Fontana quando ha visto rovesciarsi su di sé l’indignazione collettiva, lo dimostrano proprio le argomentazioni usate dal candidato stesso e da chi lo sostiene – compresi alcuni giornali -. Argomentazioni che, stiamo ben attenti, scomodano addirittura la nostra Costituzione. Una delle Carte forse più inclusive, più attente ai diritti e alla giustizia sociale. “Si dovrebbe cambiare anche la Costituzione”, si è detto, “visto che anche quella parla di razze”.
Un’affermazione talmente paradossale da far sospettare che proprio coloro che sono stati ampiamente accusati di razzismo a causa di tali dichiarazioni, in fondo, non vogliano pienamente distanziarsi da questa accusa. Semplicemente perché hanno capito che non conviene. L’argomentazione usata per difendersi, infatti, vuole far pensare che qui sia tutto un problema di lessico, di definizioni, o di – come Trump insegna – “politicamente corretto”. Come se la questione fosse semplicemente l’uso di un termine, appunto, troppo urtante, “razze”, un termine cassato dal tribunale mondiale del galateo, del “politically correct” ipocrita e benpensante, a cui molti politici ancora si attengono per una questione di mera facciata. E allora, è il paradosso usato, se anche la Carta Costituzionale parla di “razze”, anch’essa andrebbe incolpata di razzismo.
Peccato che a questi politicanti sfugga il succo del discorso. Il punto non è, o almeno non solo, l’aver usato il concetto di “razza”, che deriva dall’antropologia fisica a scopo classificatorio. Il punto è l’aver usato il concetto di “razza”, sì, e per di più in una certa accezione. Un’accezione esclusiva, denigratoria, o, al contrario, celebrativa – come in questo caso – di una “razza” rispetto alle altre. La “razza bianca”. Si lasci perdere il fatto che la comunità scientifica sia ormai giunta alla conclusione che la dimensione razziale riguardi più i nostri costrutti sociali e culturali piuttosto che attenere a una vera oggettività scientifica. Richard Lewontin fu il primo genetista a smentire il mito dell’esistenza di differenti razze umane. Leggenda vuole che, quando gli chiesero se lui credesse nella razza, la sua risposta fu: «Certo, le razze esistono», indicandosi però la testa e aggiungendo: «sono tutte quante qui». Il riferimento, naturalmente, era al mondo dell’immaginazione.
Perché e in che termini, allora, la Costituzione parla di “razze”? Si legga l’articolo 3: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. La Carta Costituzionale afferma, di fatto, l’esatto contrario di quanto sostenuto da Fontana, secondo cui una delle ragioni per cui l’immigrazione andrebbe limitata è una presunta minaccia alla “nostra” razza, quella “bianca”, alla nostra “etnia”, quella, chissà, italico-europea. Addirittura, la Costituzione contempla che possano essere cittadini italiani persone di “razza”, “etnia”, “religioni” diverse, argomento sul quale i leghisti e il Centrodestra, con la loro tenace battaglia contro lo ius soli, hanno dato peraltro il “meglio” di sé.
Concediamo, tuttavia, che lo stesso utilizzo del termine “razza” nella Carta Costituzionale sia oggetto di discussione. Non molti sanno che l’Istituto Italiano di Antropologia (ISItA) ha recentemente contestato questo articolo e, con un documento approvato all’unanimità dal suo Consiglio Direttivo il 23 ottobre 2014, ne ha chiesto la sostituzione. Per capirne le motivazioni, dovremmo scendere nello specifico. Secondo l’ISItA, dal punto di vista antropologico, la gran parte delle differenze genetiche inter-individuali si osservano già all’interno delle singole popolazioni, mentre solo una parte esigua della diversità è riscontrabile tra i diversi gruppi umani del “catalogo razziale” generalmente usato, che divide l’umanità in australoidi, europoidi, mongoloidi e negroidi. Le cosiddette “razze”, insomma, non sarebbero così diverse l’una dall’altra. Per questa ragione, l’Istituto vorrebbe modificare il suddetto articolo come segue: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di aspetto fisico e tradizioni culturali, di sesso, di colore della pelle, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. La Repubblica non riconosce l’esistenza di presunte razze e combatte ogni forma di razzismo e xenofobia”.
Una modifica che potrebbe pure essere per certi versi utile (se solo questo articolo fosse emendabile), visto il clima che si respira ultimamente. Resta il fatto che la Costituzione italiana, in particolare nel suo articolo 3, è l’esatta negazione degli assunti del razzismo e della xenofobia, perlomeno nell’accezione più moderna dei termini. Dobbiamo sempre tenere presente, peraltro, che la Carta ha 50 anni, ed è stata partorita all’indomani di un periodo storico in cui, in nome del concetto di “razza”- allora, ricordate?, la prediletta era quella “ariana” – venivano promulgate leggi sanguinarie e si mandavano milioni di persone a morire. Sì, anche qui in Italia. I nostri Padri Costituenti sapevano cosa significava essere giudicati sulla base della presunta appartenenza a una ipotetica “razza”, e le conseguenze distruttive che ciò ha comportato. Ecco perché, in ultima istanza, al di là di qualsiasi dissertazione antropologica, la dichiarazione di Fontana non può essere in nessun caso accettabile.
Che poi, oggi, possa essere accettata, quello è un altro conto. Un conto che certi politici tengono ben in considerazione, al fine di appesantire il proprio portafoglio elettorale. Certo: le condanne sono arrivate. Ma – avete notato? – erano spesse accompagnate da un “ma”. Renato Brunetta, ad esempio, ha detto, in sostanza, di preferire il “lapsus di Fontana” all'”opportunismo” di Renzi. Una presa di distanza molto timida, che strizza l’occhio a chi, da quella frase, non solo non si sente offeso, ma addirittura difeso. Il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri ha definito la sparata di Fontana un “errore”, una “imperizia dialettica”. Come se, appunto, fosse solo un problema di terminologia, una leggerezza meramente lessicale e non anche concettuale. E lo stesso Salvini si è affrettato a smentire le voci che volevano Berlusconi convinto dell'”inadeguatezza” di Fontana. Giorgia Meloni, poi, ha tenuto a prendere sì le distanze, ricordando però ai suoi elettori che, anche se la “razza” non c’entra, la “difesa dell’identità culturale” rimarrà una priorità del suo partito. Dimenticando che la stessa Costituzione vieta di effettuare discriminazioni sulla base, tra le altre cose, di “lingua” e “religione”, fattori che caratterizzano proprio la sua tanto cara “identità culturale”. E che è la stessa Costituzione (art. 19) a sancire il diritto di professare, in forma individuale o associata, la propria religione sul territorio italiano, principio, proprio in Lombardia, palesemente negato dalla “legge anti-moschee” voluta da sua stessa parte politica.
La tecnica, insomma, è quella di prendere le distanze, ma non troppo. Ma anche il centrosinistra, pur in tutt’altri termini, sa bene che sulla questione dell’immigrazione deve stare attento. Pur senza strizzare l’occhio alle istanze razziste, ultimamente, se si vogliono vincere le elezioni, è bene non mostrarsi troppo “aperti” sul tema: l’accusa di buonismo, forse la più temuta degli ultimi tempi, è sempre in agguato. Lo stesso ministro Minniti, sul tema, ha mostrato un pugno duro per certi versi accostabile a quello sferrato anni prima dal leghista Maroni. Che l’immigrazione vada gestita è sicuramente vero. Nel frattempo, però, battersi per ridimensionare la portata del fenomeno, affidandosi più a un principio di oggettività che a meri istinti, o per riaffermare la priorità della difesa dei diritti umani, anche quelli degli africani che l’accordo tra Italia e Libia ha chiuso in novelli “lager”, proprio non porta voti. Trump insegna.