Non sarà un Natale tranquillo per il presidente degli Stati Uniti Donald Trump. E non solo per la “spada di Damocle” del Russiagate che gli pende sulla testa già da un po’, ma la cui lama pare essersi affilata di recente soprattutto dopo le ultime novità relative al ruolo di Michael Flynn. A turbare (potenzialmente) i sonni presidenziali, infatti, potrebbero esserci anche le accuse di una “cattiva” condotta sessuale che lo hanno investito negli scorsi mesi (rispetto a cui il Washington Post ha peraltro pubblicato un interessante storico), e che, in queste ore, potrebbero destare un rinnovato interesse pubblico.
Perché un giudice di New York dovrà a breve decidere se respingere una causa per diffamazione che potrebbe trascinare il Presidente al centro dello tsunami che sta travolgendo registi, attori e personaggi noti accusati di molestie sessuali. Il caso di cui stiamo parlando riguarda Summer Zervos, ex concorrente dello show di Trump The Apprentice. A quanto si apprende da una denuncia archiaviata presso la Corte Suprema di New York, la Zervos afferma che nel 2007 Trump avrebbe tentato un approccio molesto nei suoi confronti nonostante l’assenza del suo consenso. Naturalmente, Trump ha categoricamente smentito tutte le accuse, che ha definito – come ha fatto in altre situazioni simili che lo hanno investito nel corso della campagna presidenziale – “bugie” e “assurdità” finalizzate a favorire la sua rivale Hillary Clinton.
Un’autodifesa che non è piaciuta all’ex concorrente di The Apprentice, al punto da convincerla a denunciare Trump per diffamazione. Ora, i suoi avvocati stanno lavorando perché il Presidente ritratti le proprie affermazioni, si scusi e paghi un risarcimento. Ma in queste stesse ore, come la classica “ciliegina sulla torta”, si sono aggiunte le contrite dimissioni del senatore democratico Al Franken, a sua volta accusato di molestie sessuali da parte di sette donne, dimissioni giunte a seguito di una pressione senza precedenti da parte del Congresso. Non che il Senatore abbia confessato, anzi: «Alcune delle accuse che mi vengono rivolte sono semplicemente false; altre non me le ricordo in questi termini», si è difeso. Tuttavia, in un momento storico di rinnovata attenzione e di campagne sempre più puntuali da parte di media e opinione pubblica sul tema della violenza di genere, la scelta di lasciare il proprio seggio è giunta come un atto di responsabilità da parte di Franken, ma anche come una scelta dovuta per il Partito Democratico. Consapevole di dover apparire inattaccabile sul tema per poter poi “sentenziare” sulla condotta degli avversari politici.
Non a caso, a inchiodare Franken alle sue (presunte) responsabilità sono state in prima fila le donne dem, su impulso della combattiva senatrice dello Stato di New York Kirsten Gillibrand. Così, la leadership di Capitol Hill, Nancy Pelosi alla Camera dei rappresentanti e Chuck Schumer al Senato, non ha potuto che assecondare l’onda. Ma la solidità della posizione dei democratici la si intuisce da un estratto dello stesso discorso di dimissioni di Franken: “Io, tra tutti, sono consapevole che c’è una certa dose di ironia nel fatto che io sto lasciando il mio incarico, mentre un uomo che si è vantato della sua storia precedente di molestie sessuali siede allo Studio Ovale, e un uomo che ha ripetutamente abusato di giovani ragazze è in lizza per il Senato con il pieno supporto del suo partito”. Dopo quello eloquente a Trump, quest’ultimo riferimento è a Ray Moore, ex giudice in lizza per conquistarsi un seggio al Senato per l’Alabama con il pieno e esplicito sostegno del tycoon, dopo essere stato accusato di molestie sessuali da tre donne, avvenute, a loro avviso, quando avevano tra i 16 e i 18 anni. E se fino a poco tempo fa i Repubblicani non parevano disposti a sostenerlo, in seguito, con l’endorsement di Trump in persona, l’intero partito si è accodato nel fare quadrato attorno al discusso aspirante senatore.
E che tutta questa vicenda possa diventare una discreta “gatta da pelare” per l’attuale inquilino della Casa Bianca – già assediato dalle indagini sul Russiagate che riguardano suoi stretti collaboratori – lo dimostra anche la scelta dell’influente rivista Time di attribuire il titolo di “Person of the Year” a quelle che ha chiamato “the silent breakers”: e cioè le donne che hanno squarciato il velo di indifferenza e omertà che copriva, fino a non molte settimane fa, il delicato argomento della violenza di genere. Un riconoscimento non da poco, peraltro, al cosiddetto movimento #MeToo, hashtag che ha accompagnato le tante denunce scaturite a grappolo, che hanno segnato un vero e proprio risveglio di coscienze collettivo sul tema. Il tutto assume una valenza quasi paradossale se si pensa che la “persona dell’anno” del 2016 è stato proprio Donald Trump, neovincitore delle presidenziali, appellato dal lungimirante Time come “President of the Divided States of America”. Oggi, a un anno di distanza, quello stesso riconoscimento, attribuito alle donne “che hanno rotto il silenzio”, potrebbe giocargli un brutto tiro.
Va da sé che, se oltre a produttori, registi, direttori d’orchestra e chi più ne ha più ne metta, lo scandalo contemplasse con prove concrete anche il nome del Presidente degli Stati Uniti in persona, le conseguenze potrebbero essere devastanti. Tanto devastanti da far tremare la poltrona del Commander-in-Chief. Perché, mentre per il Russiagate potrebbe volerci un po’ più tempo – sebbene il coinvolgimento di Michael Flynn assomigli pericolosamente a una “pistola fumante” – per giungere a sfiorare direttamente il Presidente – sempre che, chiaramente, sarà questa la piega che prenderà l’indagine –, le conseguenze di un caso “sexual harassment” potrebbero essere improvvise e travolgenti. Soprattutto visto che in corso c’è una vera e propria riscossa d’opinione pubblica non solo a livello nazionale, ma anche internazionale, un’ondata, per così dire, di neo-femminismo inteso come lotta per il rispetto della dignità della donna e opposizione a una cultura che tende a mercificarla, a considerarla oggetto, e a trasformarla in vittima degli assalti maschili, spesso coperti da un velo di meschina e bieca omertà.
Trump, insomma, rischia grosso, e ha di fronte a sé diversi scenari. Se il giudice deciderà di proseguire la causa, lo staff della campagna presidenziale del tycoon potrebbe dover rilasciare alcuni documenti connessi a più di una decina di donne – compresa la Zervos – che hanno puntato il dito contro il Presidente. Naturalmente, gli avvocati della Casa Bianca stanno facendo di tutto perché ciò non accada. Secondo i media americani, infatti, la strategia sarebbe quella di puntare sulla Costituzione, secondo la quale, a loro avviso, il giudice in questione non avrebbe alcuna giurisdizione sul Presidente. Gli avvocati della Zervos, dal canto loro, hanno citato la sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti nota come “Clinton vs. Jones”, che ha permesso all’ex dipendente pubblica dello stato dell’Arkansas Paula Jones di fare causa per molestie sessuali contro Bill Clinton e di procedere nel 1997 mentre era ancora Presidente degli Stati Uniti.
Altro scenario sono poi le imminenti elezioni in Alabama. Stato negli ultimi decenni in mano ai Repubblicani, dopo lo scoppio dello scandalo su Moore i Democratici hanno visto un altrimenti insperato incremento di voti. E anche a livello nazionale, con le dimissioni di Franken il Partito si è tutelato da qualsiasi contro-accusa, salvaguardando il pulpito da cui attaccare i conservatori. Perché, se anche l’ex giudice dell’Alabama diventasse senatore, a quel punto avrebbero la coscienza linda per ingaggiare una sanguinosissima battaglia politica contro i Repubblicani, battaglia che, com’è facile comprendere, avrebbe come target principale, più che Moore, il Presidente in persona. Il caso contrario – e cioè la non probabilissima sconfitta dell’ex giudice – sarebbe naturalmente un eclatante segnale premonitore di disfatta per il Commander-in-Chief. Perché il discredito che colpirebbe il Partito Repubblicano farebbe relativamente presto a montare fino alla Casa Bianca.
La questione, insomma, è molto delicata. Il rischio è che la “pistola fumante” decisiva che ancora manca nel Russiagate per “incastrare Trump” venga infine ritrovata in tutt’altra, per così dire, “scena del crimine”. Un caso che, così come il Russiagate non può che rimandarci al Watergate di Nixon, richiama – pur con le dovute ed evidenti differenze – al Sexgate che travolse Bill Clinton, uno dei due Presidenti nella storia degli States a subire la procedura di impeachment (il primo fu Andrew Johnson nel 1868, perché Nixon si dimise prima di arrivarci). I “corsi e ricorsi”, peraltro, non si fermano qui, se pensiamo che il consorte di Hillary dovette anche difendersi da accuse di molestie sessuali. Clinton, alla fine, ne uscì politicamente (quasi) illeso per insufficienza di prove. Ma per Trump i tempi, come si vede, si preannunciano ben più duri…