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Caso Weinstein &co., ecco i tanti “burqa” della civiltà occidentale

Una riflessione in occasione della Giornata Internazionale per l'Eliminazione della Violenza contro le Donne

La Voce di New YorkbyLa Voce di New York
Caso Weinstein &co., ecco i tanti “burqa” della civiltà occidentale

Bambole appese a un muro per protestare contro la violenza sulle donne (Flickr / Giovanna Paolini)

Time: 4 mins read

Se la comunità internazionale non contrasterà la violenza contro le donne, il mondo non sarà mai in grado di sradicare la povertà e di raggiungere nessuno degli altri Sustainable Development Goals. Parola di Antonio Guterres, Segretario Generale ONU, che sul tema ha dedicato un icastico messaggio in occasione della Giornata Internazionale per l’Eliminazione della Violenza contro le Donne. Una ricorrenza particolarmente sentita, quest’anno, per diverse ragioni: un po’ per lo scandalo, di portata internazionale, che l’ha preceduta e accompagnata, dopo lo scoppio della “bomba” Weinstein e l’effetto domino successivo che ha riguardato tante altre personalità illustri del mondo del cinema e non solo. Un po’ perché il 2017 può considerarsi, a ragione, l’apice di un nuovo processo di autoconsapevolezza femminile, in Italia rappresentato e culminato nel movimento, di origine transnazionale, “Non una di meno”, che ha visto scendere in piazza tante donne, unite per protestare contro le tante discriminazioni e le violenze sistematicamente perpetrate, ancora oggi, contro il genere femminile.

 

Le prime ad alzare la testa al grido “Ni una de menos” furono le argentine, per la prima volta il 3 giugno 2015. Lo slogan è ispirato al celebre verso «Ni una muerta más» della poesia di Susana Chávez, che dedicò il proprio lavoro alle vittime dei femminicidi perpetrati nella città messicana Ciudad Juàrez. Una città divenuta tristemente nota proprio per questa strage silenziosa, che, almeno a partire dal gennaio 1993, al 2012 avrebbe ucciso più di 700 donne. Nel 2011, la stessa poetessa che con la penna protestò contro questa piaga fu a sua volta vittima di femminicidio. Da qui, il movimento che, dalle strade di Buenos Aires, si è allargato come una marea umana anche in altri Paesi del Sud America, come Uruguay e Perù, e contagiato l’Italia, purtroppo non immune a sempre più frequenti casi di femminicidio e violenza di genere. E proprio mentre noi scriviamo, a Roma, dall’altro lato dell’Oceano, migliaia di donne sfilano orgogliose per le vie della Città Eterna, per sostenere il proprio “Piano”, presentato pochi giorni fa, «contro tutte le forme di violenza di genere». Il culmine di un lavoro che, nonostante gli ostacoli, ha visto organizzate decine di assemblee in più di 70 città, 5 incontri nazionali, lo sciopero globale dello scorso 8 marzo e, proprio oggi, la grande manifestazione nazionale.

 

Ed è proprio in tale scenario globale, dove sembra prendere piede una sempre più decisiva e significativa ondata di “neofemminismo”, inteso come battaglia culturale e di difesa dei diritti delle donne – compreso quello fondamentale e più basilare, il diritto alla vita -, che dal Palazzo di Vetro il Segretario Generale ha ricordato che, in tutto il mondo, più di una donna su tre, nel corso della propria esistenza, ha fatto esperienza di violenza fisica, sessuale, o di entrambe. L’ONU, ha ricordato Guterres, è in prima fila impegnato a sradicare questo fenomeno anche grazie allo stanziamento dell’UN Trust Fund to End Violence against women, sistema di donazione che ha raccolto più di 129 milioni di dollari a favore di gruppi o individui attivi nel sostegno dei diritti delle donne. Le Nazioni Unite hanno anche lanciato, recentemente, la  ‘Spotlight Initiative’ con l’Unione Europea, per connettere gli sforzi di tutti gli attori – compresi i governi nazionali –  che combattono questa battaglia. Il Palazzo di Vetro ha poi aderito a una politica di tolleranza zero contro le molestie sessuali, anche quelle perpetrate dai peacekeepers impegnati in teatri di guerra, e ha deciso di proseguire la campagna ‘UNiTE to End Violence against Women’, sotto la nuova denominazione di ‘UNiTE by 2030′.

 

Tutti obiettivi fondamentali, soprattutto a giudicare dalle statistiche e dai numeri sconvolgenti che riguardano la violenza contro le donne nel mondo. Guterres, in particolare, ha legittimamente dedicato un pensiero speciale alla situazione in Afghanistan, uno dei Paesi dove tale fenomeno raggiunge picchi più preoccupanti. Una denuncia certamente giustificata e necessaria, che pure si focalizza su una delle mille e più manifestazioni di un problema quantomai sfaccettato e complesso, ma soprattutto globale. Perché, parlando di violenza di genere, ciò che dovrebbe più angosciarci è forse il fatto che il fenomeno va ben al di là di contesti politicamente e socialmente fecondi all’attecchire di discriminazioni contro le donne. Ciò che il caso Weinstein e tutti i suoi “satelliti” hanno dimostrato è proprio questo: che, anche nei nostri “civilissimi” Paesi sviluppati – quelli che amano dare lezioni al resto del mondo – ancora oggi, nel 2017, esiste innanzitutto un’emergenza culturale. Un’emergenza che va ben al di là delle polemiche scaturite (soprattutto in Italia) dalle denunce di alcune donne più o meno famose, denunce considerate da qualcuno di volta in volta tardive o addirittura strumentali.

 

Il punto non è, qui, capire se Asia Argento o chi per essa sia stata più o meno consenziente o abbia tratto vantaggio dal non aver stroncato sul nascere le avances del produttore ricco e potente di turno. Da rilevare, piuttosto, è il fatto che, finalmente, è fragorosamente venuto alla luce un sistema malato e incancrenito, dove la donna viene considerata oggetto di piacere anche in contesti lavorativi e professionali, e dove il corpo femminile, mercificato dall’uomo potente, diventa necessariamente strumento di ricatto. Una forma mentis ancora oggi diffusa, diffusissima, e, quel che è peggio, coperta da un velo di omertà quasi mafiosa: quel “tutti sanno”, “tutti sapevano”, “si sa” che galleggia tra il detto e il non detto, tra il dicibile e il non dicibile, tra il giustificato e il non giustificabile, e sfocia, in fin dei conti, nella più bieca complicità, nella tolleranza del peggior tipo, nell’assoluta e impietosa banalità del male. E tutto questo non è che l’altra faccia della medaglia – quella, per così dire, “capitalistica” – di quegli odiosi burqa con cui, ciclicamente, da questa parte del mondo (spesso con un certo fare di superiorità) ce la prendiamo, e degli abusi e delle censure che subiscono ogni giorno tante donne come noi in tante altre, più sfortunate, parti del mondo.

 

 

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