
Per gentile concessione, pubblichiamo la relazione presentata dal Prof. Claudio Rossi alla recente conferenza “The Challenges of Migration in North America and Europe: Comparing Policies and Models of Reception”, organizzata dal Center for Italian Studies della SUNY at Stony Brook e che si è tenuta dal 2 al 4 novembre, 2017.
Una società può essere definita come un insieme di individui tenuti insieme da relazioni reciproche e che si dotano di una propria organizzazione. Gli individui sono uniti in questo insieme da un interesse comune e da un comportamento solidale orientato alla soddisfazione di questo interesse.
Nel funzionamento della società il concetto di “cittadinanza” attiene a quella sfera della vita sociale che interviene, regola, esplicita il senso delle relazioni reciproche fra gli individui che si riconoscono in quella società e alla loro organizzazione. Per questo essa indica i comuni interessi superiori per i quali pretendere un comportamento solidale fra i cittadini.
Il concetto di cittadinanza, quindi, non rappresenta semplicemente un prodotto di tecnica giuridica ma è un prodotto culturale che tocca la motivazione profonda del sentimento di condivisione della società che lo esprime. Ripercorrere, anche velocemente come faremo, il senso che la cittadinanza ha avuto nella storia significa perciò ripercorrere i presupposti culturali che indicano quale società vuol essere quella che quel dato senso di cittadinanza esprime.
Vedremo anche che in tutti i luoghi e in tutti i tempi il senso di cittadinanza ha rappresentato per le comunità umane il modo di interpretare il sistema di relazioni fra i componenti della comunità e fra questi e gli “esterni”, gli “altri”, gli “stranieri”, coloro cioè che di quella comunità non fanno parte.
Per questa ragione il “senso” di cittadinanza ha accompagnato l’evoluzione delle società umane, definendo di volta in volta chi fa parte del “popolo” e come ne fa parte, allo scopo ultimo di assicurare la propria sopravvivenza. Scopriremo che la funzione della cittadinanza si muove come un pendolo tra unione e separazione, parità e discriminazione, partecipazione ed esclusione, riferite sia alla comunità dei cittadini che a quella dei non cittadini.
Nel discutere della cittadinanza, allora, è fondamentale capire che essa è uno strumento e che in quanto strumento essa può essere utilizzata per scopi anche opposti.
Nella rappresentazione della società, in tutti i luoghi e in tutti i tempi la cittadinanza ha intersecato il fenomeno dell’immigrazione, sia nei suoi aspetti simbolici che pratici ed oggi, soprattutto in Occidente, è l’elemento di confronto forse più serrato nella discussione sulle politiche di gestione dell’immigrazione e dei suoi effetti sulle comunità d’inserimento.
L’idea in questa Conferenza è di offrire un contributo alla comprensione del ruolo che può essere attribuito alla cittadinanza nel processo d’integrazione della popolazione immigrata.
Per far questo devo chiarire inizialmente che la definizione di integrazione cui mi riferisco è il processo di partecipazione diretta alla vita ordinaria e straordinaria della società, a parità di condizioni fra cittadini e senza discriminazioni. L’integrazione è caratterizzata da un processo di condivisione di obiettivi, di diritti, di doveri e soprattutto di capacità decisionale nei confronti della società che si integra.
“Che si integra” e non “che è integrata”, la condivisione infatti è un processo biunivoco, reciproco e interdipendente che coinvolge tutte le parti che fanno parte del processo.
Come risultato, il processo d’integrazione produce cambiamenti, i cambiamenti necessari all’equilibrio del sistema sociale, che saranno maggiori o minori a seconda della distanza di partenza fra le diversità.
L’integrazione è diversa dall’inclusione sociale, che riguarda invece il modo in cui gli aspiranti immigrati vengono ricevuti e fatti entrare, inclusi appunto, nel sistema sociale in essere, senza che questo comporti alcuna modifica, se non limitata e funzionale, al sistema stesso. Nel processo d’inclusione il sistema sociale è destinato a rimanere quello che è e l’onere dell’adattamento spetta sostanzialmente ai soli immigrati.
L’inclusione sociale è semmai il contenuto e l’obiettivo del processo di accoglienza, che può essere interpretato come la fase iniziale dell’integrazione ma che non comporta alcuna condivisione.
Di conseguenza, nell’ambito del tema della Conferenza, la questione della cittadinanza non riguarda l’accoglienza ma il percorso successivo. In questo percorso essa assume il ruolo di strumento strategico della stabilizzazione, per definizione contemporanea anche se non necessariamente simultanea, dell’immigrato e della società che lo inserisce.
Tradizionalmente gli studi sulla cittadinanza situano storicamente la sua definizione nella Grecia classica, agganciata all’affermazione della polis come città-stato. Tuttavia alcuni studiosi, come Flavio Baggio sulla rivista Migration Studies, evidenziano come il senso della cittadinanza sia presente in diverse civiltà anche precedenti a quella greca.
Siamo intorno al 3.500 a.C., infatti, quando le civiltà iniziali, in Mesopotamia e in Egitto, costituiscono le prime “città”, con un intreccio organizzato di relazioni, di divisione dei compiti e del lavoro e di regole di convivenza.
In questa fase originaria i potenziali cittadini sono coloro che vivono stabilmente nel territorio soggetto al dominio della città, esercitato dall’autorità di un Re o di un Comandante cui essi riconoscono la legittimità dell’esercizio del potere. Generalmente questo territorio è circoscritto e protetto da grosse mura, che difendono i suoi cittadini dai nemici e contemporaneamente separano la loro comunità da tutte le altre.
Si percepiscono cittadini, però, non tutti coloro che vivono all’interno delle mura ma solo quelli che sono considerate “libere” in contrapposizione agli schiavi e ai prigionieri: i cittadini hanno capacità decisionali, gli schiavi, i prigionieri, gli stranieri e insomma tutti coloro che non vivono stabilmente nella città, no.
Rispetto a questi caratteri la civiltà indiana delle origini, invece, mette in secondo piano il concetto di appartenenza a un territorio fisico poiché l’essenza di qualsiasi uomo è l’anima interiore, che appartiene all’universo. In questa dimensione tutto è pari e integrato al massimo grado e di conseguenza questa concezione toglie senso ai meccanismi sociali di gestione della parità e dell’integrazione delle diversità. Il senso di cittadinanza non trova posto nella dimensione interiore, così come la differenza tra cittadino e straniero o immigrato.
Al contrario Confucio, nella Cina del VI sec. a.C., introduce nella cittadinanza un significato che potremmo definire “morale”, strettamente collegabile invece proprio ai meccanismi sociali. Filosoficamente l’individuo è in quanto cittadino appartenente a una data società e si realizza in tutte le relazioni che da tale appartenenza derivano. Di conseguenza la cittadinanza si esplica come un insieme di doveri morali che hanno lo scopo “di continuare a far esistere sé e la società di appartenenza” di cui sono responsabili tutti, immigrati compresi. Appartenenza, parità reciproca e condivisione di integrazione vengono perciò di volta in volta determinate dai doveri del cittadino di tutelare la comunità, che diventano a loro volta motivo di contestuale realizzazione individuale.
Nelle civiltà precolombiane degli Inca e degli Aztechi la cittadinanza ha la funzione di separare gli abitanti stabili del Regno o dell’Impero dai nomadi. I cittadini che appartengono alla comunità sono gli abitanti stabili, considerati le “vere persone umane”, pari tra di loro. Gli stranieri sono ospiti tollerati mentre i nomadi sono separati dai cittadini e oggetto di segregazione e di discriminazione.
Diversamente, per i Maia la cittadinanza ha il senso dell’integrazione: è cittadino chi svolge all’interno della comunità una partecipazione attiva, indipendentemente dall’origine. A questa partecipazione perciò corrisponde l’attribuzione di diritti e di doveri, in opposizione a chi vive isolato e mostra indifferenza e non merita né parità, né appartenenza.
Già fin dall’inizio dunque il senso di cittadinanza presenta i suoi significati fondamentali: l’identificazione di uno status di appartenenza, la definizione delle condizioni di parità reciproca, la determinazione delle capacità di condivisione.
È comunque nella Grecia classica che noi occidentali situiamo tradizionalmente l’origine della definizione filosofico-politica di cittadinanza.
Essa assume importanza ed evidenza all’epoca delle poleis, le Città-Stato dotate di indipendenza e sovranità che si svilupparono su tutte le coste del Mediterraneo e del Mar Nero dall’VIII secolo a.c. per circa sei secoli, fino al termine dell’età ellenistica e alla successiva conquista romana.
Per come è nata, la città greca è una realtà territorialmente limitata che deve continuamente contendersi con le città confinanti lo spazio di sicurezza relativo alla mobilità, alla produzione, ai commerci ma anche alla gestione culturale e politica. La concezione della polis greca è una concezione di per sè elitaria, essa non è altro che il luogo nel quale l’élite composta da coloro che hanno fondato la città e dalla loro discendenza esercita la politica. Il cittadino non “appartiene” alla polis, “è” la polis e dunque il potere di partecipare al suo governo più che un diritto civile è inteso come un privilegio che spetta all’élite.
Con questa visione culturale dell’appartenenza e della capacità di diritti e di doveri, il pendolo del senso di cittadinanza non poteva che attestarsi sulla separazione tra un “noi” di pari dotati di potere decisionale e “tutti gli altri”, legittimamente discriminati ed esclusi.
Attenzione al privilegio e alla separazione sociale spingevano i greci a essere estremamente restii a concedere la cittadinanza, come ad esempio ad Atene dove solo i maschi adulti e discendenti da ateniesi potevano considerarsi cittadini con diritti politici. L’élite ha origine nello spazio circondato dalle mura, non è venuta in città dall’esterno e questo le dà il diritto naturale di superiorità rispetto agli altri membri della società.
Convinzione che produce in tutto il mondo greco un sostanziale rifiuto dell’integrazione della popolazione immigrata e straniera. Se la cittadinanza è un privilegio, allora va difesa. Oltre agli stranieri ne fanno le spese gli esuli, soggetti in un certo senso assimilabili ai rifugiati di oggi, che sono rimasti privi della cittadinanza avendo abbandonato la propria città e che per questo agli occhi delle élite sono degni di disprezzo.
Questa concezione della cittadinanza durò finchè durò la cultura delle poleis che a un certo punto si sciolse dentro una nuova cultura che cambiò l’interpretazione della città, dei cittadini e quindi della cittadinanza.
La diffusione della dottrina filosofica sofista e l’ambiente aperto e tollerante stimolato dalla dominazione di Alessandro Magno a partire dal IV secolo a. C. aprirono le porte all’ellenismo.
Due i nuovi presupposti culturali motori della rivoluzione ellenista: tutti gli uomini sono uguali al di là delle caratterizzazioni politiche e sociali e se tutti gli uomini sono uguali allora è possibile che facciano ugualmente parte di un solo popolo. Il senso della cittadinanza viene trasformato da strumento selettivo e discriminatorio a contenitore di universalità. L’idea stimolata da Alessandro Magno è, infatti, quella di una società a fondamento universale, con lingua, religione e civiltà comuni, all’interno della quale ognuno, in quanto essere umano, può sentirsi cittadino.
Perché questo sia possibile la cittadinanza inverte la sua funzione da difesa di privilegio a promozione di massima apertura verso condizioni individuali, sociali, culturali e religiose tra loro diverse, che non devono più competere per primeggiare una sull’altra ma la cui realizzazione è quella di fondersi. Così non vi è più bisogno di un élite dominante ma appartenenza, parità e integrazione sono uguali per tutti, senza necessità di distinguere fra greci e barbari, fra cittadini, immigrati e stranieri.
È un mutamento di cultura e al posto del privilegio delle élite aristocratiche nasce l’idea di un solo popolo nel quale la fusione tra diversità assicura pacificazione interna e può essere condotta da un capo, l’imperatore, che ha il compito di sostenere la reciproca integrazione, facilitando effettive condizioni di uguaglianza, parità e partecipazione.
Abbattimento delle barriere politiche ed economiche fra le città, crescita della popolazione e della sua varietà di composizione, sviluppo della vita associativa sono le nuove caratteristiche della città ellenistica. Essa è ora concepita come centro di cultura piuttosto che come forma di Stato, nella quale l’integrazione delle differenze non fa più paura ma, anzi, è condizione di cittadinanza.
Mentre Alessandro Magno sviluppava la sua influenza verso oriente, nel mediterraneo occidentale nasceva la grande potenza di Roma.
A proposito dell’attuale dibattito sulla concessione della cittadinanza, diciamo però subito, che nonostante le apparenze il dualismo fra jus sanguinis e jus soli non appartiene alla cultura politica romana ma viene introdotta molto più tardi da giuristi medievali del XII secolo.
L’originalità di Roma sta, invece, nel concepire un’idea di cittadinanza non rigida e statica ma legittimata ad adattarsi di volta in volta ai mutamenti sociali e politici della società.
La fondazione della città di Roma fu il prodotto della fusione e stabilizzazione di comunità sabine, etrusche, latine preesistenti quando i flussi di mobilità intorno al fiume Tevere derivanti dai commerci ebbero bisogno di essere sostenuti e organizzati. Anche la composizione sociale originaria si può immaginare molto variegata: agricoltori, allevatori, commercianti, uomini liberi ma anche servi, ribelli e fuoriusciti dalle città vicine.
I cittadini romani mantennero questa consapevolezza di essere fin dalle origini un popolo misto ed essa favorì la disponibilità all’integrazione delle diversità sul piano etico, sociale e culturale in funzione dell’efficacia della convivenza.
Consapevolezza importante perché il problema cui i Romani si trovarono di fronte fu sempre quello di come gestire in modo ordinato e produttivo il continuo assorbimento di comunità umane provocato dalla continua espansione territoriale. Così con i Latini e gli Italici all’epoca del regno e della repubblica, così con le popolazioni barbariche ai tempi dell’impero.
I Romani in tutta la loro storia utilizzarono la concessione della cittadinanza romana per legare a sé alleati e uomini di stato stranieri, acquisire nuovi uomini per l’esercito e nuovi contribuenti per l’erario.

Nei confronti degli immigrati e degli stranieri il problema politico relativo al se integrarli o meno nella comunità romana semplicemente non si pone: tutti quelli che sanno rendersi utili prima o poi diventano cittadini, anche gli schiavi. Per farlo è prevista una strategia di integrazione graduale e stratificata in funzione di quello che il nuovo cittadino potrà fare per la comunità dei cittadini romani.
La cultura dei romani aveva infatti sviluppato un tipico approccio razionale e pratico verso la realtà, che legittimava l’utilizzazione di strategie flessibili, anche caso per caso, anche parziali e progressive, purchè funzionali alla convenienza della comunità amministrata. Questa flessibilità ha uno scopo strategico: ottenere il consenso delle città, delle comunità e dei popoli che via via entravano a far parte della sua influenza al ruolo comunque dominante di Roma.
I vantaggi della concessione della cittadinanza vengono offerti in cambio di fedeltà, alleanza, contributo, forniture militari. La guerra contro Roma scatenata dalle città italiche durante la repubblica viene provocata proprio dal suo rifiuto di concedere la cittadinanza, Roma vince la guerra ma a consolidamento del dominio ritira il rifiuto e concede la cittadinanza a tutti.
Passa qualche secolo, l’impero ha raggiunto la massima espansione, la cittadinanza romana è stata allargata a tutti i suoi abitanti e Roma ha bisogno di nuove braccia, nuovi soldati, nuovi contribuenti, di un ricambio della classe dirigente amministrativa e militare. Per colmare le lacune si fanno entrare da oltre confine profughi e rifugiati a causa di guerre e carestie ma non solo, quando serve l’esercito va a prendere intere tribù e le sistema nel territorio imperiale.
A differenza di come gli Stati attuali sono abituati a valutare la concessione di cittadinanza oggi, Roma ammetteva il proprio interesse a concederla, concessione sostenuta da un processo di programmazione sociale per il quale gli immigrati e i profughi sapevano che cosa fare una volta entrati e che cosa attendersi dall’autorità se avessero accettato le regole di convivenza.
L’esercito rappresenta in questo uno strumento eccezionale, la sua proverbiale capacità operativa viene utilizzata anche come strumento di gestione sociale oltre che militare. Tutti, senza distinzione di nascita o di provenienza, possono far carriera nell’esercito e arrivare a posizioni di alto status sociale e di comando politico. Esso costituisce il più importante meccanismo d’integrazione: assorbe immigrati, stranieri, profughi, barbari e dopo il servizio li restituisce alla vita civile come cittadini romani.
Passano i secoli e ora alcuni autori propongono una sorta di parallelismo fra l’esperienza romana e quella degli Stati Uniti d’America:
- ambedue accettano come modello culturale desiderabile il melting pot;
- ambedue utilizzano il grande e potente esercito come concreto percorso verso la cittadinanza: si può entrare indipendentemente dallo status e si può uscirne cittadini.
Noi proponiamo di aggiungere un’altra somiglianza di fondo: la cultura americana, come quella romana, è ben consapevole che il suo popolo è nato da origini miste, perciò la cittadinanza diventa uno strumento politico di regolazione della convivenza piuttosto che di difesa identitaria.
Chi nasce negli Stati Uniti è cittadino americano e lo è anche chi non nasce nel territorio nazionale ma da genitori americani e almeno uno è stato residente negli Stati Uniti. Il modello è dunque il cosiddetto jus soli integrale, attualmente il meccanismo giuridico di maggior apertura nel mondo occidentale, che nella Costituzione americana è codificato tramite un emendamento del 1868, rivolto, pensate, alla protezione dei diritti di nascita degli schiavi di provenienza africana.
Nonostante le luci e le ombre che tutti conosciamo della lotta alla discriminazione razziale, anche questo dimostra che il senso della cittadinanza della Costituzione americana è quello di assicurare all’interno della propria comunità una convivenza tra uguali, pari e partecipanti allo stesso grado allo sviluppo della nazione. Prova ne sia che l’applicazione dello jus soli viene garantita anche ai nati sul suolo nazionale da immigrati irregolari.
A proposito del fenomeno immigrazione, è da notare che, a differenza dall’Europa, negli Stati Uniti l’immigrato non è solo colui che “non è cittadino” ma gli viene attribuito un preciso status, collegato ai relativi diritti e doveri verso la comunità. La Green Card, infatti, lo connota giuridicamente e socialmente agli occhi dei cittadini come “aspirante alla condizione di cittadinanza”.
E tendenzialmente inclusivo è il meccanismo che permette a un immigrato di diventare cittadino, attraverso la sponsorizzazione di un familiare, l’offerta di un lavoro, l’investimento imprenditoriale, la richiesta d’asilo e perfino in modo casuale, con la famosa Diversity Lottery.
Perciò capiamo che rispetto al senso da attribuire alla cittadinanza essi stanno affrontando il problema di come armonizzare i principi di appartenenza, parità e integrazione all’interno di una comunità nazionale nella quale stanno comunque crescendo le diversità d’origine. Gli Stati Uniti, per essere coerenti con i propri principi costituzionali, sono costretti a scegliere meccanismi d’integrazione che realmente facilitano la partecipazione economica, culturale e politica degli immigrati, che realmente evitano la discriminazione degli immigrati e che realmente tengono sotto controllo le condizioni di parità nella comunità.
L’impero romano aveva un confine, il “limes”, poderosamente presidiato ma esso non era il luogo del respingimento, se non in caso di guerra armata ma era il luogo dell’incontro, della conoscenza reciproca, dello scambio commerciale e anche culturale. Roma, pur potendolo fare, non eresse mai un muro per respingere i migranti e i profughi che chiedevano di entrare, semplicemente perché non sarebbe servito a gestire questo tipo di flussi.
Non vogliamo qui intervenire sullo stress-test che gli eventi attuali stanno producendo sulle strategie d’integrazione americana. Ci permettiamo solo una riflessione che coinvolge però la sua cultura anche politica: il sogno americano.
Che cosa rappresentava l’America per i migranti dei secoli passati e rappresenta tuttora per quelli contemporanei? Stare meglio, sopravvivere, risposta facile ma superficiale. Basta leggere anche velocemente le pagine degli scrittori venuti fuori dall’immigrazione o anche solo le lettere che gli emigrati scrivevano a casa per capire che essa rappresenta un mondo, un mondo dove si crede possibile la libertà fra pari, l’uguaglianza delle opportunità, l’integrazione attraverso la partecipazione alla vita economica e civile del luogo dove si vive.
La Costituzione recita “che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono dotati dal loro Creatore di alcuni diritti inalienabili, che fra questi sono la Vita, la Libertà e la ricerca della Felicità”. Può essere trattata solo come retorica ma può anche essere indicata come la base culturale che esprime il senso di cittadinanza americano. Quel senso che unisce in una stessa appartenenza chi vive il sogno come vero, perché partecipando può arrivare ad essere considerato una persona pari e integrata con tutti gli altri, indipendentemente e nonostante le difficoltà di farlo.
Gli imperatori romani si rallegravano ed erano lodati perché gli altri popoli cercavano la “felicità romana”, non potrebbe accadere lo stesso ai governanti degli Stati Uniti se si facessero guidare dal sogno americano che essi rappresentano?
A differenza degli Stati Uniti d’America l’Europa non ha ancora definito un concetto di cittadinanza europea e di cittadino europeo con un significato sovranazionale. Nel Vecchio Continente ognuno degli Stati ha conservato una propria concezione, che è il risultato dei processi storici e della diversità, che si presenta ancora accentuata, tra gli specifici modelli culturali di visione della società. Rispetto alla cittadinanza questo atteggiamento conservatore sta producendo una serie di procedure giuridiche personalizzate e non sempre coincidenti o armoniche, difficilmente analizzabili in una sede come questa.
Quello che è certo, comunque, è che per riconoscere il possesso o l’acquisizione della cittadinanza tutti stanno utilizzando gli strumenti giuridici consegnati dalla tradizione:
- lo jus sanguinis: cittadinanza legata alla discendenza o al matrimonio, con meccanismi automatici di trasmissione ereditaria;
- lo jus soli: cittadinanza come conseguenza automatica della nascita, senza vincoli di discendenza prevede meccanismi di ingresso dall’esterno nella comunità dei cittadini;
- lo jus domicilii: cittadinanza legata alla residenza continuativa, sottoposta a una serie di vincoli e restrizioni, con valutazione di riconoscimento discrezionale e non automatica.
Dal punto di vista teorico ognuno di questi strumenti fa riferimento ad una determinata concezione del senso di cittadinanza, che produce modi diversificati di intendere l’appartenenza alla comunità dei cittadini, le condizioni di uguaglianza tra pari e il livello d’integrazione desiderabile.
Quindi, in modo estremamente sintetico, partendo dal principio o dai principi giuridici utilizzati cercheremo di risalire al senso di cittadinanza che le varie nazionalità sembrano esprimere.
Chiariamo subito che nessuno degli Stati adotta un principio giuridico puro ma ciascuno ha costruito nel tempo un proprio modello combinato, che le varie vicende legate al nostro periodo storico probabilmente spingeranno a cambiare ancora. Questo è il segno che nel Vecchio Continente la questione del senso di cittadinanza è una questione che non ha ancora trovato una sistemazione culturale definitiva.
La maggior parte delle nazioni dell’Unione Europea privilegiano l’acquisizione e la trasmissione della cittadinanza attraverso legami di sangue. L’adozione dei legami di sangue (jus sanguinis) richiama visioni culturali di carattere elitario, retaggio culturale della protezione dell’identità tipica della cultura degli Stati nazionali. Cultura identitaria che si esprime nell’assegnazione a priori di un privilegio dovuta al fatto di discendere in linea diretta da una comunità originaria.
In questo senso l’appartenenza è un meccanismo chiuso e automatico che tende a separare, discriminare, escludere chi è fuori dalla discendenza.
Proprio per queste ragioni, di fronte alla pressione migratoria e soprattutto di richiesta d’asilo e di protezione internazionale, questi Paesi hanno sentito la necessità di alleggerire l’effetto di chiusura inserendo anche, in alcuni casi, elementi collegati a meccanismi di acquisizione per nascita o legati alla residenza continuativa. Questi inserimenti tendono a rendere possibile una maggior permeabilità e flessibilità, necessaria a permettere al sistema di rispondere ai cambiamenti ambientali.
Tuttavia sono importanti le eccezioni che privilegiano invece l’acquisizione e la trasmissione della cittadinanza per nascita (jus soli), come Francia, Germania o Irlanda. Come abbiamo visto, il modello fondato sulla nascita testimonia una visione culturale più aperta e funzionalmente orientata all’adattamento della comunità dei cittadini agli eventi sociali, politici ed economici.
In questo caso il senso della cittadinanza generalizza, anche quando presenta riferimenti alla discendenza o vincoli di residenza continuativa, il sentimento di unione e di uguaglianza fra cittadini. Inoltre stimola la costruzione di meccanismi di partecipazione integrativi, aperti, a certe condizioni, anche agli aspiranti cittadini.
È in rapporto all’immigrazione che jus sanguinis e jus soli presentano la differenza più profonda, perché l’integrazione di coloro che non sono cittadini in un sistema fondato sul privilegio d’origine produce inevitabilmente disuguaglianza e discriminazione strutturali, che ostacolano la possibilità degli immigrati di “conquistare” da soli quel privilegio.
Diversamente, l’essere riconosciuto cittadino e quindi uguale agli altri cittadini per il semplice fatto di essere nato in un certo territorio, permette al nuovo cittadino la partecipazione alla vita del territorio in cui vive e attraverso la quale “meritare” quello status.
A nostro parere è proprio la capacità strutturale maggiormente integrativa la peculiarità del senso della cittadinanza degli Stati Uniti d’America rispetto agli Stati europei nel loro complesso. Una differenza di potenzialità che rimane anche quando gli eventi storici spingono i governi dei due continenti a comportamenti simili.
Quali conclusioni trarre sulla natura della cittadinanza.
Abbiamo percorso la sua complessità, attraverso la quale si assegnano privilegi, diritti e si regola anche la convivenza fra cittadini.
Abbiamo soprattutto capito che essa rappresenta comunque un confine, successivo a quello materiale della frontiera ma non meno decisivo e rischioso in rapporto ai fenomeni migratori, perché il confine può essere un luogo dell’incontro ma anche quello dell’esclusione definitiva.
Scrive Zigmunt Bauman che “i migranti (profughi, rifugiati e via dicendo) sono anche la metafora dell’esclusione e del “rifiuto” di una società che ha a cuore, troppo spesso solo a parole, la dignità umana. Il migrante che non trova una propria identità e una propria patria è assimilabile a un prodotto di scarto”.
È verso questo tipo di società che noi dobbiamo evitare in tutti i modi di andare.
Nei video sotto, il Prof. Luigi Troiani, dell’Università Pontificia di San Tommaso D’Aquino di Roma, presenta un sommario e delle riflessioni personali della conferenza: “The Challenges of Migration in North America and Europe: Comparing Policies and Models of Reception,” che si è tenuta alla SUNY Stony Brook, il 2-4, novembre, 2017.