Che bel nome Daphne, quello della giornalista assassinata a Malta il 16 ottobre. Ma è un nome che parla del destino di una donna che preferisce rinunciare al suo corpo, diventare altro, morire anziché cedere. La ninfa Daphne è inseguita dal dio Apollo che, bramoso di possederla, grida: “Non ti inseguo per farti del male, ma per amarti”. Però Daphne sa che si è appena impossessato del santuario della dea di Delfi: ha sconfitto Gea, Febe, Temi… lei è destinata ad essere la prossima preda. Fugge la ninfa, arriva al fiume Peneo e prega il padre che scorre di dissolverla, trasformarla, per sfuggire al nuovo dio della terra, del sole, della giustizia… “I capelli si allungano in fronde, le braccia in rami” scrive Ovidio nelle “Metamorfosi”.
Daphne diventa l’albero d’alloro, con le cui foglie Apollo ornerà il capo come simbolo di vittoria.
Daphne Caruana Galizia indagava su un traffico internazionale di droga: è saltata in aria a causa di una bomba messa nell’abitacolo della sua auto. Come la ninfa del mito, è andata incontro al suo destino perché non voleva arrendersi, accettare di farsi violentare la coscienza che è indissolubilmente anima e corpo, e che le conferiva dignità di donna.
L’arredatrice iraniana Reyhaneh Jabbari, detenuta per cinque anni nel carcere di Teheran per aver ucciso a 19 anni l’uomo che aveva tentato di violentarla, è stata impiccata alla fine dell’ottobre 2014 perché non ha voluto smentire il tentativo di violenza cosicché la famiglia dello stupratore l’avrebbe perdonata (!). Se invece si fosse lasciata stuprare, avrebbe fatto carriera e ora nel suo Paese potrebbe essere ricca e famosa come una di quelle attrici di Hollywood che si sono date a Weinstein.
Ci sono donne per le quali il corpo è un confine e altre che lo considerano un fine. Il confine della propria dignità, dove fermarsi, chiudersi, perché lì finisco io e cominciano gli altri. Oppure il fine da raggiungere: il corpo famoso che, aprendosi, aprirà tutte le porte. Per queste donne il fine giustifica i mezzi. Weinstein, tutto sommato, è stato un mezzo per la loro ascesa. Hanno pagato con il corpo? Potevano non farlo, ma per loro il corpo serviva per questo.
La più grande forma di libertà è poter dire di no. E’ un lusso che però non fa guadagnare: si sconta per tutta la vita con l’insuccesso nella carriera, se va bene; se va male anche con la morte.
Ergo, le donne che vogliono arrivare, si sottomettono alle regole maschili non scritte, ma che tutte conoscono benissimo perché sono consuetudine. E fanno quello che più gli conviene: vendono il corpo e, una volta diventate famose, denunciano l’acquirente. Non avevano dignità prima e non l’hanno ora rivelando quello che hanno accettato senza essere state obbligate.

Nel mio lavoro, ho visto aspiranti giornaliste offrirsi insistentemente al direttore per essere assunte. Altro che molestate. Molte sono state assunte, alcuni colleghi ne parlavano indignati. Ma s’indigna solo chi ha dignità.
Priva di dignità, Asia Argento non demorde e mette in piazza i letti a due piazze delle colleghe, affinché tutti vedano con chi li hanno condivisi: ha pubblicato sul suo profilo Istagram una lista di 93 donne molestate come lei da Weinstein. Consenzienti, quindi. Allora: mal comune mezzo gaudio. Anzi, per vent’anni il gaudio è stato pieno, vista la loro invidiabile carriera, sorrisi a destra e a manca.
A forza di recitare le vite altrui, non sanno chi sono, come appunto disse Asia: “Devo ancora capire chi sono”. Ma la colpa è pure nostra: siamo così assettati di divinità che abbiamo fatto di semplici attrici delle dee. Offuscati dalla loro bellezza, le abbiamo viste anche intelligenti. Direi che sarebbe il caso di abbassare il sipario quando recitano se stesse: che squallore umano.
Reyhaneh aveva dei princìpi, mentre quelle attrici hanno innalzato a prìncipi i loro molestatori pur di far parte del loro harem dorato. La giovane iraniana è morta per tutte noi donne, per affermare la nostra coscienza e il nostro orgoglio. E non ce ne siamo quasi accorte.